Wall Street incerta post dato inflazione. Su tonfo S&P 500 Fmi ritiene possibile outlook Dimon (JP Morgan)
L’inflazione torna a gelare Wall Street, che cerca tuttavia di riprendersi dall’ennesima batosta arrivata dal fronte macro.
Dopo aver ripiegato in premercato, i principali indici azionari Usa tentano di nuovo la ripresa. Alle 16 circa ora italiana, il Dow Jones sale di oltre 110 punti (+0,44%); il Nasdaq Composite avanza dello 0,33%, così come anche lo S&P 500.
Ieri, quinta sessione consecutiva di ribassi per l’indice S&P 500 e per il Nasdaq. In particolare lo S&P 500 è sceso dello 0,65% a 3.588,84 punti. Il Nasdaq Composite ha perso l’1,10% a 10.426,19, chiudendo al minimo dal luglio del 2020. Il Dow Jones Industrial Average è salito di 36,31 punti (+0,12%), a quota 29.239,19.
Prima dell’inizio della giornata di contrattazioni a Wall Street, è stato diffuso l’indice dei prezzi alla produzione Usa, tra i termometri più importanti per monitorare il trend delle pressioni inflazionistiche: il dato è salito a settembre su base mensile dello 0,4%, il doppio rispetto all’aumento dello 0,2% atteso dal consensus e in decisa accelerazione rispetto alla flessione precedente dello 0,2%.
Su base annua, l’indice PPI è balzato dell’8,5%, più del +8,4% stimato dal consensus, ma meno del rialzo dell’8,7% di agosto.
Escluse le componenti più volatili rappresentate dai prezzi energetici e dei beni alimentari, l’indice dei prezzi alla produzione è avanzato su base annua del 7,2%, meno del 7,3% stimato, salendo su base mensile dello 0,3%, come da attese, e come il +0,3% precedente (dato rivisto al ribasso dal precedente aumento dello 0,4%).
Dal dato emerge che l’inflazione Usa continua nel complesso a salire oltre le attese degli analisti, disattendendo le speranze della Fed, che punta a riportare il tasso di crescita all’obiettivo del 2%. E invece il trend è superiore di oltre 4 volte rispetto al target della banca centrale americana.
Oggi saranno pubblicate anche le minute della Fed relative all’ultimo meeting del Fomc, il braccio di politica monetaria della banca centrale Usa, relative al 21 settembre scorso, quando i tassi principali di riferimento sono stati alzati di 75 punti base, come da attese, e Powell & Co hanno confermato l’intenzione di procedere a ulteriori strette monetarie per combattere l’inflazione, che viaggia ai livelli massimi dagli inizi degli anni ’80.
La banca centrale americana ha portato i tassi Usa nel range compreso tra il 3% e il 3,25%, al record dal 2008, procedendo alla terza stretta consecutiva di 75 punti base.
Il dato di oggi relativo all’inflazione misurata dall’indice PPI fomenta ulteriormente i timori di nuove strette monetarie aggressive da parte della Fed di Jerome Powell.
A questo punto l’attesa è per l’altro dato che monitora l’inflazione, il CPI – ovvero l’indice dei prezzi al consumo – che sarà diffuso nella giornata di domani.
“Il rialzo dei prezzi di beni e di servizi non dovrebbe essere motivo di sorpresa. Ricordate che l’aumento rimane inferiore rispetto a quelli che abbiamo visto all’inizio di quest’anno ogni mese, in modo costante – ha commentato Mike Loewengart, responsabile della costruzione di portafogli modello presso l’ufficio investimenti globali di Morgan Stanley, Morgan Stanley Global Investment Office – Nessun dubbio sul fatto che la Fed abbia ancora del lavoro da fare, e se il CPI che sarà diffuso domani sarà elevato, non siate sorpresi di vedere alcuni investitori realizzare che ci vorrà ancora tanto tempo prima di assistere a un rallentamento dell’inflazione”.
Ieri un assist alla Fed hawkish è arrivato dalla presidente della Fed di Cleveland Loretta Mester:
“Il rischio più grande che incombe sulla politica monetaria è che la Fed non alzi i tassi in modo sufficiente” per contrastare l’inflazione Usa, ha detto Mester, aggiungendo che la “Fed deve fare ancora progressi nell’abbassare l’inflazione” e che “la politica monetaria deve entrare in una fase restrittiva”.
“La dimensione delle strette monetarie della Fed dipenderà dalle condizioni economiche”, ha detto ancora Mester, prevedendo un tasso di disoccupazione negli Stati Uniti in rialzo (dal 3,5% attuale) al 4,5% entro la fine del 2023 e poi ancora più alto nel 2024. La numero uno della Fed di Cleveland ha detto di prevedere un calo dell’inflazione al 3,5% nel 2023 e al 2%, quindi in linea con il target della Fed, pari al 2%, entro il 2025.
“Un possibile shock potrebbe far scivolare gli Stati Uniti in recessione”, ha ammesso la funzionaria della Fed, riconoscendo che “la lotta per abbassare l’inflazione è dolorosa, ma deve esserci”.
Di recessione si parla molto da tempo, e nelle ultime ore i timori sull’arrivo di un hard landing in Usa e nel mondo sono stati rinfocolati dalle nuove previsioni sulla crescita del Pil a livello globale, che l’Fmi, il Fondo Monetario Internazionale, ha pubblicato ieri aggiornando il World Economic Outlook (WEO).
L’istituzione di Washington ha annunciato di aver tagliato l’outlook sulla crescita dell’economia globale per il 2023 di 0,2 punti percentuali rispetto alle stime di luglio, stimando una espansione del 2,7%. A parte i trend del Pil durante la crisi finanziaria globale e nel picco della pandemia Covid-19, nel 2023 si assisterà “al tasso di crescita più debole dal 2001”. Il Pil mondiale del 2022 è atteso ancora stabile con una crescita del 3,2%, quasi dimezzata tuttavia dall’espansione del 6% del 2021.
“Il peggio deve ancora arrivare, e per molte persone il 2023 sarà come vivere una recessione”, si legge nel rapporto dell’Fmi, che ricalca gli avvertimenti già lanciati dalle Nazioni Unite, dalla Banca Mondiale e da molti amministratori delegati.
Il rischio di una recessione è stato tuttavia smorzato dal presidente americano Joe Biden.
In un’intervista rilasciata alla CNN Biden ha detto, commentando gli ultimi outlook sull’economia americana sfornati dalle varie banche d’affari, di non credere che, nel breve termine, gli Usa andranno in recessione e che, se anche così dovesse essere, si tratterà alla fine di un “lieve” rallentamento dell’economia.
La situazione “è molto, molto grave” e le economie americana e globale dovrebbero scivolare in recessione nell’arco dei prossimi 6-9 mesi, entro la metà del 2023, aveva invece avvertito l’altro ieri Jamie Dimon, numero uno di JP Morgan, banca numero uno degli Stati Uniti.
In questo contesto Wall Street è destinata a soffrire ancora, ha aggiunto il ceo, con un tonfo dell’indice S&P 500 che potrebbe essere “facilmente del 20%” rispetto ai livelli attuali. Non solo: “il prossimo calo del 20% potrebbe essere più doloroso del primo”.
Nel commentare le previsioni delle banche d’affari, Biden ha tuttavia sottolineato:
“Lo dicono ogni sei mesi. Ogni sei mesi (le banche) guardano ai sei mesi successivi e dicono che succederà. Ma non è ancora successo. Non è successo…e non credo che ci sarà una recessione. Se arriverà, si tratterà di una recessione molto lieve”.
Fiducia nell’economia americana è stata espressa anche dal segretario al Tesoro Usa Janet Yellen:
“L’economia americana sta facendo molto bene”, in un contesto di aumento di prezzi energetici, di nuove varianti del Covid-19 e di guerra tra la Russia e l’Ucraina, ha detto Yellen in un’intervista rilasciata alla Cnbc.
Se Biden ha ironizzato sulle previsioni di Jamie Dimon & Co, non altrettanto ha fatto Tobias Adrian, direttore della divisione di mercati monetari e dei capitali del Fondo Monetario Internazionale.
In un colloquio con la Cnbc, Adrian ha detto che è “sicuramente possibile” che le previsioni del numero uno di JP Morgan, che prevede un tonfo dello S&P 500 di un ulteriore 20%, si concretizzino.
Sul mercato dei Treasuries Usa, i tassi decennali sono poco mossi, attorno al 3,937%, dopo essere saliti al 3,966%. I tassi a due anni, più sensibili alle decisioni di politica monetaria della Fed, sono invece in calo al 4,304%. Il differenziale dei tassi, o spread, conferma come la curva dei rendimenti dei titoli di stato Usa continui a rimanere invertita: un segnale premonitore secondo diversi analisti dell’arrivo di una recessione negli Stati Uniti.