Wall Street futures cauti dopo record S&P e Nasdaq, borsa Tokyo in lieve rialzo. Boom prezzi petrolio dopo flop Opec+, Brent oltre $77
Lo S&P 500 riparte oggi da un nuovo valore record, riportato venerdì scorso a seguito della pubblicazione del report occupazionale Usa di giugno.
L’indice benchmark è salito venerdì scorso dello 0,75% a 4.352,34 punti. Record anche per il Nasdaq Composite, avanzato dello 0,81% alla chiusura record di 14.639,33. Il Dow Jones Industrial Average è aumentato di 152,82 punti a 34.786,35.
Lo S&P 500, in particolare, è salito al record per la settima sessione consecutiva, la fase rialzista più lunga da agosto 2020.
Ieri, lunedì 5 luglio, Wall Street è rimasta chiusa, all’indomani della Festa dell’Indipendenza del 4 luglio, che quest’anno è caduta nella giornata di domenica. I futures sono ora poco mossi, con quelli sul Nasdaq che cedono lo 0,25%, quelli sullo S&P 500 in flessione dello 0,07%, quelli sul Dow Jones in rialzo di appena +0,05%.
Debolezza in Asia: l’indice Nikkei 225 della borsa di Tokyo è salito dello 0,16% a 28.643 punti; borsa di Shanghai in ribasso dello 0,24%; Hong Kong -0,23%; Sidney tra le peggiori, in ribasso dello 0,73%, dopo che l’RBA – Reserve Bank of Australia, banca centrale dell’Australia – ha lasciato i tassi principali di riferimento invariati allo 0,10%, confermando allo 0,10% anche il target dei rendimenti dei titoli di stato a tre anni.
Dal comunicato diramato dalla banca centrale australiana, emerge che “la ripresa economica è più solida di quanto atteso in precedenza” e che “in generale è positivo l’outlook per le famiglie e gli investimenti”. Ancora, “il mercato del lavoro continua a recuperare a un ritmo più forte di quanto stimato”, anche se “l’inflazione e i salari rimangono sotto controllo”.
L’RBA ha reso noto che “risponderà al miglioramento dell’outlook aggiustando l’ammontare dei titoli di stato che acquista su base settimanale”, comunicando che “lancerà una ulteriore revisione (della sua politica monetaria) a novembre; infine, ha sottolineato, è improbabile che le condizioni ottimali dell’economia, secondo lo scenario di base, vengano centrate entro il 2024. Dunque, il tono è stato hawkish ma non in modo eccessivo. Il dollaro australiano segna comunque un balzo dello 0,48% nei confronti del dollaro Usa, con il rapporto AUD/USD a $0,7566.
Chi sembra essere destinata a diventare davvero falco è invece la Reserve Bank of New Zealand. Il mercato degli swap prezza infatti una probabilità pari al 75% di un rialzo dei tassi neozelandesi a novembre che, se si verificasse, metterebbe la Reserve Bank of New Zealand sullo stesso piano della super-hawkish Norges Bank, l’unica delle banche centrali del G10 a prevedere un rialzo dei tassi nel 2021. Sul forex grande protagonista di oggi è così il kiwi, che balza sul dollaro Usa fino a +0,90% a $0,7084.
A scatenare le scommesse hawkish, è stata la pubblicazione dell’indice della fiducia delle imprese della Neo Zelanda, dato stilato su base trimestrale, noto come ‘Quarterly Survey of Business Opinion (QSBO)’, dal New Zealand Institute of Economic Research, considerato termometro delle condizioni economiche del paese. La fiducia delle imprese è balzata del 7%, rispetto al -13% del trimestre precedente.
Dal fronte macroeconomico del Giappone, reso noto il dato relativo alla spesa delle famiglie giapponesi che, nel mese di maggio, è balzata dell’11,6% su base annua, meglio del rialzo +10,9% atteso dagli analisti e in rallentamento rispetto alla crescita +13% di aprile.
Il balzo, su base annua, si spiega con il base effect, ovvero con il fatto che i numeri di quest’anno vengono paragonati a quelli decisamente negativi degli stessi mesi del 2020, quando la pandemia Covid-19 aveva bloccato l’economia globale, provocando il tonfo dei dati macroeconomici. Ancora, in Giappone comunicato il dato dei salari dei dipendenti, saliti a maggio dell’1,9% su base annua a livello nominale, e del 2% su base reale. Il rialzo dell’1,9% è il più forte dal giugno del 2018, ma si conferma ancora inferiore rispetto al maggio del 2019 che, non essendo condizionato dal fattore pandemia Covid-19, risulta un metro di paragone più affidabile. Gli straordinari sono volati su base annua del 20,7%: il paragone con il 2020 è condizionato tuttavia da un base effect significativo, in quanto nel maggio del 2020 i salari crollarono.
Petrolio ancora protagonista, dopo la decisione dell’Opec+ di annullare la riunione, per l’incapacità di arrivare a un accordo con gli Emirati Arabi Uniti, che chiedono sostanzialmente che la soglia di partenza per la determinazione della quota di produzione venga rivista al rialzo, per poter produrre di più. Il fatto che la riunione sia stata annullata significa che non è stato deciso neanche quell’aumento dell’offerta di 400.000 barili al giorno a partire da agosto, che era stato proposto dall’alleanza Opec+, fattore bullish per le quotazioni del petrolio: il WTI balza di quasi il 2% a $76,61 al barile, mentre il Brent fa +0,29% a $77,39.
Ben tre le fumate nere dell’Opec+, che non è riuscita a trovare una intesa nel giorno ufficiale della riunione, lo scorso 1° luglio, il giorno successivo, venerdì 2 luglio, e ieri, lunedì 5 luglio.
Arabia Saudita e Russia avevano già siglato un accordo preliminare che, in linea di principio, prevedeva l’aumento dell’offerta di 400.000 barili al giorno da agosto a dicembre del 2021, al fine di centrare la domanda che, con la fase di reopening post (quasi) fine del lockdown, è in continuo aumento. E fin qui tutto ok per Abu Dhabi.
A far storcere il naso agli Emirati Arabi Uniti è stata un’altra cosa: il fatto che i tagli decisi nel 2020 – anno della pandemia Covid -19 – vengano prorogati alla fine del 2022 senza che ci sia una revisione delle soglie di produzione da cui partire:
“Il problema è aver posto una condizione a quell’aumento (della produzione decisa fino a fine 2021), ovvero estendere l’accordo (del 2020 sui tagli per motivi Covid) – ha spiegato alla Cnbc Suhail Al Mazrouei, ministro dell’Energia degli Emirati Arabi Uniti aggiungendo che, quanto proposto, semplicemente “non è un buon accordo” per il paese.
Per capire la questione, è bene ricordare che i tagli, così come gli aumenti di produzione, vengono decisi prendendo come riferimento una soglia di partenza: più alta è quella soglia, più un paese può produrre una maggiore quantità di petrolio.
Ciò che Abu Dhabi chiede, è la revisione al rialzo della propria quota, prima che quei tagli vengano prorogati alla fine del 2022, per produrre dunque di più rispetto a quanto le è consentito di fare ora, in base alla soglia attuale.
La soglia attuale è quella, d’altronde, che è stata decisa per il paese nell’ottobre del 2018, quando Abu Dhabi produceva 3,2 milioni di barili al giorno circa. Il punto è che, lo scorso anno, quel numero è volato a 3,8 milioni di barili al giorno. Secondo gli Emirati Arabi Uniti, la soglia di partenza non dovrebbe essere insomma quella di quattro anni fa.