Wall Street contrastata in attesa sviluppi Russia-Ucraina: verso terza settimana consecutiva di sell, tutti indici sono in correzione
Wall Street contrastata, dopo l’impressionante rimonta di ieri che ha visto i principali indici azionari della borsa Usa chiudere in territorio positivo, cancellando le pesanti perdite riportate nei minimi intraday. Lo S&P 500 ha chiuso in rialzo dell’1,5% a 4.288,70 dopo essere scivolato di oltre il 2,6% nelle ore precedenti. Il Dow Jones Industrial Average ha chiuso in crescita di 92,07 punti a 33.223,83, cancellando una perdita durante i minimi intraday di ben 859 punti. Il Nasdaq Composite è balzato del 3,3% a 13.473,59, dopo aver ceduto fino a -3,5%.
Alle 15.45 circa ora italiana, il Dow Jones avanza dello 0,96% (+319 punti), a 33.543 punti; lo S&P 500 sale dello 0,50% a 4.310 punti, mentre il Nasdaq Composite fa peggio con un calo dello 0,35% a quota 13.426.
La guerra in Ucraina continua a essere monitorata attentamente dagli investitori di tutto il mondo: riflettori puntati sulla capitale Kiev, accerchiata dalla forze russe di Vladimir Putin.
Dopo il forte balzo della vigilia, rallentano comunque i prezzi del petrolio; ieri il Brent ha superato la soglia di 100 dollari al barile per la prima volta dal 2014. Oggi, in generale, i prezzi delle commodities sono in ribasso, inclusi quelli del gas naturale.
I tassi dei Treasuries Usa sono invece in lieve rialzo, con quelli decennali saliti fino all’1,986%, vicini alla soglia del 2%.
Il bilancio settimanale di Wall Street è negativo per la terza settimana consecutiva: il Dow Jones ha perso il 2,5% ed è orientato a chiudere la settimana peggiore dal 21 gennaio scorso; lo S&P 500 e il Nasdaq hanno ceduto rispettivamente l’1,5% e lo 0,6%.
Tutti e tre gli indici sono in fase di correzione, in quanto attorno a valori inferiori del 10% o anche più rispetto ai precedenti record testati. Ieri il Nasdaq ha aperto anche in mercato orso, ovvero a un valore inferiore di oltre -20% rispetto al massimo record testato nel novembre del 2021.
Dal fronte macroeconomico, la solidità dell’economia americana è stata messa in evidenza dal dato preliminare relativo agli ordini dei beni durevoli che, nel mese di gennaio, sono saliti dell’1,6%, molto meglio del rialzo pari a +0,8% atteso dal consensus degli analisti, e dopo il +1,2% di dicembre (dato rivisto al rialzo dal -0,7% inizialmente comunicato).
Il dato – quella appena pubblicata è la lettura su base preliminare – è salito per il quarto mese consecutivo, e per l’ottava volta in nove mesi.
Il timore di una ulteriore impennata dell’inflazione – che è attesa tra l’altro crescere ora ancora di più, con il rischio che la Russia di Putin risponda alle sanzioni ricattando l’Occidente con il suo gas, petrolio e materie prime – è stato rinfocolato dalla pubblicazione del dato relativo alle spese per consumi e ai redditi personali di gennaio.
Dal dato è emerso che l’inflazione Usa misurata dall’indice dei prezzi PCE core – parametro preferito dalla Fed per monitorare il trend delle pressioni inflazionistiche – è salita al livello più alto in quasi 39 anni. L’indice PCE core è balzato per la precisione del 5,2% su base annua, rispetto al +5,1% atteso dal consensus, al ritmo più alto dall’aprile del 1983 e rispetto all’aumento del 4,9% di dicembre.
L’indice PCE headline è balzato dal +5,8% di dicembre a +6,1%. Le spese per consumi sono salite a gennaio del 2,1% su base annua, ben oltre il rialzo pari a +1,5% atteso. I redditi personali sono rimasti invariati, facendo comunque meglio del -0,3% atteso.