Fed tra inflazione e crisi banche, UBP: impari da errori anni ’70
Fed tra inflazione e crisi banche. La lezione degli anni ’70
La Fed sta vincendo la battaglia lanciata contro le fiammate dell’inflazione degli Stati Uniti? E come possono o dovrebbero muoversi gli investitori nel contesto attuale, reso più difficile con la crisi delle banche, esplosa appena due settimane fa?
A tal proposito, vale la pena ricordare che, la scorsa settimana, al termine della riunione del braccio di politica monetaria Fomc, la Fed capitanata da Jerome Powell ha annunciato, come da attese, la decisione di alzare i tassi sui fed funds Usa di 25 punti base, al nuovo range compreso tra il 4,75% e il 5%.
I trader hanno tuttavia iniziato a scontare subito la possibilità che quella annunciata sia stata l’ultima stretta monetaria di questo ciclo di rialzi dei tassi della Federal Reserve.
Il motivo?
La crisi delle banche Usa, che ha riportato sui mercati lo spettro di una recessione per l’economia degli Stati Uniti. A tal proposito, un articolo di Bloomberg ha fatto notare che i trader sono sempre più convinti che Jerome Powell & Co inizieranno a tagliare i tassi a partire da questo mese preciso.
E d’altronde, come ha detto chiaramente Jerome Powell, la crisi delle banche Usa può essere equiparata a un rialzo dei tassi, se non anche oltre.
Di seguito il commento di Norman Villamin, Chief Investment Officer Wealth Management di UBP: “FED, una lezione dagli errori degli anni ’70”.
Con il commento, Villamin consiglia di “guardare a strategie di credito alternative per capitalizzare l’elevata volatilità del mercato obbligazionario”.
UBP: guardare a strategie di credito alternative
“Ad oggi – spiega Norman Villamin, CIO della divisione di Wealth Management di UBP – i rendimenti a breve termine hanno sopportato il cambio di aspettative, con i rendimenti dei buoni del Tesoro a 3 mesi in forte aumento, mentre i rendimenti dei Treasury decennali a più lunga scadenza hanno subito una pressione relativamente minore, scendendo di 30 punti percentuali e rendendo la curva dei rendimenti a 10 anni/3 mesi la più profondamente invertita – con oltre -100 punti percentuali – dai tempi della Grande Inflazione”.
“Tuttavia – precisa Villamin – ulteriori aumenti dei tassi non devono necessariamente esercitare una pressione eccessiva sui rendimenti dei Treasury a 10 anni. Negli anni ’70 e all’inizio degli anni ’80, la curva dei rendimenti a 10 anni/3 mesi registrò un’inversione di ben 150-250 bps, il che suggerisce che tassi del 6-6,5% potrebbero ancora consentire ai rendimenti a più lunga scadenza di stabilizzarsi vicino alla nostra fascia obiettivo del 4-4,5%”.
In questo contesto, spiegano da UBP, “con curve dei rendimenti così profondamente invertite, gli investitori possono guardare alle obbligazioni a più lunga durata come a un modo per posizionarsi in vista di un’imminente pausa nei rialzi dei tassi della Fed e della prospettiva di una recessione. In effetti, un calo più marcato dell’inflazione dei servizi ex-shelter fungerà probabilmente da catalizzatore chiave per guidare un calo dei rendimenti a più lunga scadenza e uno spostamento verso il basso lungo la curva dei rendimenti”.
“Fino ad allora, per gli investitori, la lezione degli anni ’70 suggerisce che l’elevata volatilità del mercato obbligazionario emersa fin dalle prime mosse della Fed alla fine del 2021 dovrebbe persistere fino alla fine del ciclo di rialzi.
Proprio questa “volatilità suggerisce che le strategie di credito alternative dovrebbero continuare a offrire interessanti opportunità di rischio-rendimento per gli investitori, dato che i mercati obbligazionari continuano a valutare l’evoluzione delle prospettive di crescita e inflazione”.
E’ ovvio che, “con l’instabilità del sistema bancario unita all’aumento della pressione inflazionistica, la sfida della Federal Reserve – attuare scelte di politica monetaria che vincano la guerra contro l’inflazione, evitando al contempo una recessione economica – è diventata più insidiosa”.
Ma “gli insegnamenti tratti dalle scelte politiche compiute negli anni Settanta, combinati con una gestione proattiva del rischio, dovrebbero aiutare gli investitori a tracciare il proprio percorso”, secondo il direttore degli investimenti dell’unità di Wealth Management di UBP.
Inflazione Usa: quando tornerà al target del 2% della Fed?
In ogni caso, avverte Villamin, “riportare l’inflazione all’obiettivo del 2% fissato dalla Fed sarà più impegnativo di quanto ipotizzato dai mercati. Continuiamo a prevedere che nel 2023 l’inflazione statunitense scenderà solo al 3,5-4%, al di sopra delle aspettative di consenso. Per il 2024 il mercato si aspetta un ritorno all’obiettivo del 2-2,5% fissato dalla Federal Reserve”.
Ora, sottolinea l’esperto “sebbene sia certamente possibile che la Fed raggiunga il suo obiettivo, guardare agli anni ’70 e alle scelte politiche che hanno portato a un prolungamento dell’era della Grande Inflazione offre agli investitori un’idea di cosa ci aspetta in futuro e dei passi necessari per raggiungere gli obiettivi della Fed”.
Dal passato la lezione della Grande Inflazione 1965-82
Viene fatto notare che “gli eventi degli ultimi due anni presentano analogie con due episodi della Grande Inflazione del 1965-82: il primo in seguito all’embargo petrolifero arabo del 1973 e il secondo dopo la rivoluzione iraniana del 1979″.
Iniziamo con l’evento che venne scatenato negli anni ’70 con l’embargo petrolifero arabo:
“Nel 1973-74, la Fed alzò i tassi parallelamente all’accelerazione dell’inflazione globale. L’ultimo rialzo dei tassi avvenne quando l’inflazione dei prezzi dei generi alimentari e dell’energia aveva raggiunto il suo picco e la disoccupazione era aumentata, mentre l’inflazione dei servizi continuava ad accelerare. Il ciclo di rialzo dei tassi fu abbastanza aggressivo da provocare un continuo aumento della disoccupazione fino al 1975, con un picco del 9%. L’inflazione dei servizi legati all’edilizia abitativa si attenuò rispetto al suo picco, ma l’inflazione dei servizi non legati all’edilizia abitativa si dimostrò più insidiosa. Ciò fu probabilmente dovuto all’immediato passaggio al ciclo di allentamento del 1974-75, che riportò i tassi ai livelli precedenti all’embargo petrolifero del 1973″.
Il Chief Investment Officer Wealth Managment di UBP fa il parallelismo tra la situazione attuale e anche quella successiva alla rivoluzione esplosa in Iran:
“All’indomani della rivoluzione iraniana del 1979 si verificò una dinamica simile. Quando l’inflazione delle materie prime raggiunse il suo picco all’inizio del 1980, la Fed allentò aggressivamente la pressione in un momento in cui la disoccupazione era passata da meno del 6% nel 1979 a quasi l’8% a metà del 1980. Questa risposta all’aumento della disoccupazione permise solo all’inflazione legata ai servizi di scendere appena al di sopra del 10%, mentre l’inflazione dei servizi non abitativi rimase ancora una volta stabile, attestandosi solo vicino al 12% quando la Fed iniziò ad allentare la pressione”.
Successivamente, “il brusco passaggio a un atteggiamento di allentamento, proprio come nel 1974, permise all’inflazione di riaccelerare e richiese tassi di policy di quasi il 20% nel 1981, combinati con i guadagni di produttività della rivoluzione informatica e l’espansione della forza lavoro per porre finalmente fine all’era della Grande Inflazione”.
Tornando a oggi, “i mercati prevedono una rapida inversione di rotta rispetto ai rialzi dei tassi, come negli anni ’70”.
Di fatto, segnala Villamin, “fino ai dati sull’inflazione di gennaio, più alti del previsto, i mercati prevedevano che i rialzi dei tassi della Fed si sarebbero conclusi già nel 2° trimestre del 2023, seguiti dai tagli dei tassi che sarebbero dovuti avvenire nel 2° semestre, replicando potenzialmente la funzione di reazione della Fed negli anni ’70, anche senza la pressione sociale della crescente disoccupazione”.
Successivamente, “alla luce dei segnali di inflazione persistente emersi dal rapporto di gennaio, i mercati dei futures si sono orientati a prezzare un ulteriore picco nella politica monetaria della Fed a fine 2023, ma aspettandosi ancora una volta una rapida riduzione dei tassi a partire dall’inizio del 2024″.
“Gli eventi che hanno coinvolto Silicon Valley Bank non solo hanno vanificato il fatto che i mercati avevano già prezzato l’atteggiamento hawkish di febbraio, ma hanno fatto sì che gli operatori stiano ora valutando una fine anticipata dei rialzi dei tassi e un ciclo di riduzione più ripido rispetto a quello visto a gennaio”.
Dal canto suo, sottolinea Villemain, “la Federal Reserve sembra aver imparato dall’esperienza degli anni ’70. Invece di fare una brusca virata, le comunicazioni della Fed, almeno quelle antecedenti al fallimento della Silicon Valley Bank, sembrano suggerire che continuerà ad alzare i tassi a un livello sufficientemente limitato (cioè, fino a che l’inflazione dei servizi non legati all’edilizia abitativa si sarà attenuata) per contenere le pressioni inflazionistiche e mantenere i tassi a questo livello per un periodo prolungato per garantire la scomparsa dell’inflazione”.