Opec+, ancora fumata nera. Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti ai ferri corti, alert prezzi petrolio
Niente fumata bianca dal vertice dell’Opec +; gli Emirati Arabi Uniti sbattono la porta in faccia agli alleati e dicono no al deal proposto. I prezzi del petrolio viaggiano al di sopra di quota $75, ma alcuni analisti iniziano a paventare un rally di quelli che potrebbero frenare la ripresa economica, in caso di non raggiungimento di un accordo.
Dall’altro lato, c’è chi intravede il rischio di una guerra dei prezzi, che potrebbe concretizzarsi nel caso in cui ogni paese membro dell’alleanza iniziasse a decidere da sé la quota di produzione.
Si tratta, in quest’ultimo caso, di un outlook estremo, ma neanche di “un Cigno nero”, come scrive Helima Croft, responsabile della divisione di strategia globale sulle commodities di RBC Capital Markets.
Ricapitoliamo quanto sta accadendo.
L’annuncio della decisione dell’Opec+ – alleanza tra paesi Opec come l’Arabia Saudita e paesi non Opec come la Russia – era atteso per giovedì scorso. Niente di fatto, con Abu Dhabi che ha detto no a un piano che coprirebbe il periodo compreso tra i mesi di agosto e di dicembre del 2021: l’annuncio è stato rimandato così a venerdì 2 luglio, giornata che si è conclusa, tuttavia, con un ennesimo flop proprio per il no degli Emirati Arabi Uniti.
Punto e a capo, ci si riprova oggi
Cosa c’è alla ragione del no?
Secondo quanto riportato da Reuters, l’accordo proposto dall’alleanza prevede di aumentare la produzione di petrolio in modo graduale e, allo stesso tempo, di estendere la durata dei tagli concordati fino alla fine dell’aprile del 2022.
Bisogna fare un passo indietro per capire i motivi di questi tagli e risalire al periodo in cui la pandemia Covid-19 ha scardinato i mercati globali, costringendoli ad adattarsi a un New Normal, presentatosi senza nessun preavviso.
Quello schiaffo in faccia al mondo intero, sferrato dal coronavirus, ha fatto crollare i prezzi del petrolio fino al minimo assoluto di $-37,63 al barile nel caso del contratto WTI scambiato sul Nymex di New York, con prezzi addirittura negativi.
Il tonfo è stato una conseguenza naturale dell’economia globale andata in quarantena con misure di restrizioni varie e lockdown più o meno totali: economia bloccata, fabbriche chiuse, negozi chiusi, gente confinata in casa: ovvero meno consumi, meno investimenti, meno necessità di petrolio, domanda al lumicino, prezzi, di conseguenza, capitolati.
E’ stato a quel punto che l’Opec+ ha raggiunto un accordo per tagliare la produzione di quasi 10 milioni di barili al giorno da maggio 2020 fino alla fine dell’aprile del 2022.
Con il miglioramento della situazione sanitaria in tutto il mondo, l’Opec + ha poi deciso alla fine dello scorso anno di far confluire nel mercato una maggiore quantità di produzione, pari a 500.000 barili al giorno, a partire dal 2021: in realtà l’offerta era stata già aumentata nel mese di agosto del 2020, quando i tagli, dagli iniziali 9,7 milioni di barili al giorno decisi nel maggio del 2020, era stati ridotti a 7,7 milioni di barili al giorno.
Via via, con il nuovo anno, tenendo sempre in mente le minacce rappresentate dalla recrudenza del Covid-19 con le sue varianti e dal fattore bearish sui prezzi delle trattative Usa-Iran per ripristinare l’accordo nucleare stralcato dall’amministrazione di Donald Trump, l’Opec+ è tornata a iniettare nuove quote di produzione, decidendo di far tornare sul mercato parte della produzione ritirata:
esempio, nell’ultimo meeting, l’alleanza ha tenuto fede alle sue promesse, annunciando il ritorno di 2,1 milioni di barili al giorno, nei mesi di giugno e luglio.
Cosa sta succedendo ora?
Tutto parte da una proposta presentata la scorsa settimana dall’Arabia Saudita e dalla leader dei paesi non Opec, ovvero dalla Russia: la proposta è di estendere la durata dei tagli (decisi nell’anno del Covid-19, e in via di allentamento), fino al 2022.
I due produttori top avevano già siglato un accordo preliminare che, in linea di principio, prevedeva l’aumento dell’offerta di 400.000 barili al giorno da agosto a dicembre del 2021, al fine di centrare la domanda che, con la fase di reopening post (quasi) fine del lockdown, è in continuo aumento. E fin qui tutto ok per Abu Dhabi.
A far storcere il naso agli Emirati Arabi Uniti è stata un’altra cosa. il fatto che i tagli decisi nel 2020 – anno della pandemia Covid -19 – vengano prorogati alla fine del 2022 senza che ci sia una revisione delle soglie di produzione da cui partire:
“Il problema è aver posto una condizione a quell’aumento (della produzione decisa fino a fine 2021), ovvero estendere l’accordo (del 2020 sui tagli per motivi Covid) – ha spiegato alla Cnbc Suhail Al Mazrouei, ministro dell’Energia degli Emirati Arabi Uniti aggiungendo che, quanto proposto, semplicemente “non è un buon accordo” per il paese.
Per capire la questione, è bene ricordare che i tagli, così come gli aumenti di produzione, vengono decisi prendendo come riferimento una soglia di partenza: più alta è quella soglia, più un paese può produrre una maggiore quantità di petrolio.
Ciò che Abu Dhabi chiede, è la revisione al rialzo della propria quota, prima che quei tagli vengano prorogati alla fine del 2022, per produrre dunque di più rispetto a quanto le è consentito di fare ora, in base alla soglia attuale.
La soglia attuale è quella, d’altronde, che è stata decisa per il paese nell’ottobre del 2018, quando Abu Dhabi produceva 3,2 milioni di barili al giorno circa. Il punto è che, lo scorso anno, quel numero è volato a 3,8 milioni di barili al giorno. Secondo gli Emirati Arabi Uniti, la soglia di partenza non dovrebbe essere insomma quella di quattro anni fa:
“Noi riteniamo ora che far dipendere l’estensione dell’accordo da qualcosa che risale al 2018, per un periodo che va al 2022, non sia semplicemente realistico, perchè quella soglia è di quattro anni fa”, ha ribadito Al Mazrouei alla CNBC, continuando: “Non è affatto giusto”. Va anche detto che Abu Dhabi ha investito miliardi per aumentare la propria capacità di produzione del petrolio, al fine di aumentare la produzione.
Il punto, tuttavia è che, secondo gli accordi siglati, i paesi membri dell’Opec+ potranno rinegoziare le loro quote di partenza soltanto alla fine dell’accordo attuale, che ora l’Arabia Saudita e la Russia vogliono estendere.
Helima Croft ritiene che un esito bullish per i prezzi del petrolio della riunione dell’Opec si presenterebbe qualora il gruppo si conformasse al piano originario, senza accordarsi su alcun aumento della produzione.
“Il modo in cui il deal sarà raggiunto sarà rilevante per i mercati. Un esito bullish chiaro e non ambiguo ci sarebbe nel caso in cui il gruppo si attenesse alla tabella di marcia originaria del tapering, manifestando l’intenzione di tenere fuori dal mercato 5,8 milioni di barili al giorno, fino all’aprile del 2022″, ha scritto Croft, la responsabile della divisione di strategia delle commodities di RBC Capital Markets.
Allo stesso tempo, RBC Capital Markets crede che la prospettiva di prezzi a $100 al barile non sarebbe “politicamente appetibile” per il governo di Joe Biden, che potrebbe proprio oggi lanciare “un appello ai principali esponenti del (cartello) al fine di evitare fuochi di artificio virtuali nella sessione di lunedì”.
Ma non è escluso anche lo scenario opposto, ovvero una guerra dei prezzi:
“Se le trattative finiscono con un nulla di fatto, allora il rischio di ritornare a uno scenario di produzione in cui ognuno fa per sé potrebbe provocare un dietrofront del rally dei prezzi del petrolio – ha scritto Croft – Non crediamo che questo sia un esito probabile, ma non possiamo neanche non prenderlo affatto in considerazione. Sicuramente, non è uno scenario da Cigno Nero”.