Mps, il Tesoro dice no a chi vuole una banca pubblica forever. Privatizzazione resta un must
Lo Stato italiano, per via del Mef, non ha intenzione di rimanere per sempre nel capitale di Mps, banca senese di cui è diventato maggiore azionista nel 2017 durante il governo di Paolo Gentiloni, con una ricapitalizzazione precauzionale previa autorizzazione da parte dell’Ue. E’ quanto ha chiarito il direttore generale del Tesoro, Alessandro Rivera, intervenendo ieri pomeriggio alle commissioni Finanze di Senato e Camera.
Rivera ha parlato del caso dell’istituto senese, ancora più denso di incognite dopo la rottura delle trattative tra il Tesoro e UniCredit. A seguito dello stop dei negoziati con Piazza Gae Aulenti, ha rassicurato il dirigente di Via XX Settembre, “sono state avviate le interlocuzioni con la Commissione europea per ottenere una proroga che sia di durata adeguata e in questo momento non quantificabile”.
Detto questo, per l’appunto,”la permanenza sine die nel capitale della banca non é uno scenario ipotizzabile. Quindi a prescindere da quale sia la tempistica nuova da ridefinire della soluzione, la privatizzazione costituisce in ogni caso un punto di arrivo necessario. In coerenza, il Ministero nel rispetto del Dpcm è ancora incaricato di dismettere la partecipazione anche con operazioni straordinarie”.
Insomma, ha fatto capire Rivera in un messaggio che forse avrà spezzato i sogni di chi spera in una nazionalizzazione perenne, Mps banca pubblica forever non fa parte dei piani del Tesoro.
Per chi non lo avesse ancora capito, “non possiamo ipotizzare che il Monte diventi il perno di una costruzione in mani pubbliche di un terzo polo, di una banca dei territori, o di una banca pubblica di investimenti. Non con il Monte perché il Monte ha ricevuto un aiuto di Stato e questo ha delle conseguenze“.
Ma a questo punto cosa succede?
“Il Ministero continuerà a garantire che Banca Mps sia gestita in modo efficiente e rimanga patrimonialmente solida”, attraverso strategie volte “alla valorizzazione della partecipazione, alla salvaguardia del valore storico e dei livelli occupazionali (..) Certamente c’è da parte del Ministero tra le priorità da perseguire la salvaguardia dell’occupazione”, ha detto Rivera, ricordando che un qualsiasi intervento sulla forza lavoro avverrebbe attraverso lo strumento degli “esodi volontari”, strumento tra l’altro “già previsto nel piano proposto ed inviato a Bruxelles”.
Mps, Rivera: con UniCredit Tesoro non in condizione di debolezza
Il direttore generale del Tesoro ha tenuto a puntualizzare inoltre come sono andate le cose durante le trattative, poi interrotte, con UniCredit:
“Non credo che il Tesoro si trovasse in una condizione di debolezza. Avevamo una scadenza nota ma non eravamo costretti a chiudere. L’obbligo e l’impegno che avevamo era per chiudere l’operazione entro il 31 dicembre di quest’anno ma a condizioni di mercato. Quindi se le condizioni di mercato non ci sono noi non concludiamo e non siamo costretti a farlo”.
E’ vero tuttavia che, ora che non c’è più l’ipotesi UniCredit, per Mps “una ulteriore aggregazione sarebbe un altro percorso estremamente complesso: sarebbe necessario molto tempo ed una proroga dell’incentivo (DTA) per queste operazioni che scade entro giugno del prossimo anno. Non sarebbe semplice ipotizzare che in questo lasso di tempo si possa completare un ulteriore approfondimento”.
E questo significa che il Tesoro ora è concentrato sul “piano della Banca da presentare alle autorità coinvolte ed al mercato”. Piano che renderà necessario un aumento di capitale:
“Il piano prevede un aumento di capitale ed è molto probabile che sia necessario anche dopo che il piano sarà rivisto. Ribadisco che il Ministero farà la sua parte”. Sull’importo, “è presto per dire quanto sarà. Occorrerà fare un piano solido che già esiste ma sul quale va innestata una discussione. Ad esito di questa si valuterà con le autorità quale sia l’entità necessaria”.
Mps: ora rischia di costare più allo Stato che a UniCredit
Il discorso di Rivera scatena la stampa italiana, con i quotidiani che a questo punto riflettono sul futuro del Monte di Stato.
Si mette in evidenza quanto scritto da Cinzia Meoni per “Il Giornale”, che fa notare che “gli ennesimi tempi supplementari potrebbero costare, secondo un primo calcolo, fino a 12 miliardi tra l’ennesima ricapitalizzazione che il Tesoro spera di effettuare “a condizioni di mercato” per evitare il salvataggio oneroso di azionisti e obbligazionisti (pro quota, per Via XX settembre l’esborso potrebbe essere compreso tra 1,6 e 3,2 miliardi), il piano esuberi (le stime parlano di 7mila unità circa, su base volontaria, tre volte quanto laprevisto, con un costo intorno a 1,5 miliardi), la gestione dei crediti deteriorati e delle cause legali pendenti (fonti bancarie prevedono rispettivamente un potenziale costo di 2 e 3 miliardi, oltre ai 2,3 miliardi di Dta”.
Della serie, come recita il titolo dell’articolo de Il Giornale “Ora il Monte rischia di costare più allo Stato che a UniCredit”
Occhio alla proposta di Ignazio Angeloni, economista ex esponente della Bce, che ritiene che Mps dovrebbe essere salvata dalle principali banche italiane, come spiega il suo editoriale pubblicato su Il Sole 24 Ore, dal titolo: “Una operazione di sistema, a tempo e condivisa, per dare un futuro a Mps”.
Angeloni ha illustrato la proposta, dopo che le trattative tra il Mef e UniCredit di Andrea Orcel, come si sa, sono naugrafate.
A suo avviso “le principali banche italiane (diciamo almeno una decina, senza che nessuna si tiri indietro) potrebbero rilevare la quota pubblica della banca senese tramite una joint venture le cui quote rifletterebbero le caratteristiche dimensionali dei partecipanti e le loro esposizioni verso Mps. L’operazione avrebbe una durata dichiaratamente limitata, senza però un limite temporale rigido, per arrivare a una collocazione sul mercato o alla fusione con altro soggetto entro alcuni anni”.
L’annuncio ufficiale dello stop dei negoziati tra il Mef e UniCredit guidata da Andrea Orvel arrivato domenica 24 ottobre, con un comunicato diramato congiuntamente dal Tesoro e da Piazza Gae Aulenti.
Sui motivi, le indiscrezioni non sono mancate: Reuters ha per esempio scritto subito, in base a quanto appreso da una fonte vicina al dossier, che l’amministratore delegato di UCG Orcel avrebbe preteso un impegno, da parte dello Stato, superiore ai 7 miliardi di euro, che il Tesoro avrebbe reputato “troppo punitivo” per i contribuenti italiani, dopo che 5,4 miliardi di euro erano stati versati dagli stessi contribuenti nel 2017, quando Mps era stata salvata con una ricapitalizzazione precauzionale lanciata dal governo italiano dopo l’ok di Bruxelles.
Il Corriere della Sera aveva individuato in 8,5 miliardi di euro l’impegno dello Stato (leggi sempre contribuenti) preteso da UniCredit.
“Unicredit chiedeva che lo Stato sottoscrivesse un aumento di capitale da 6,3 miliardi di euro per l’intera Mps; se a questa cifra — ben più alta del tetto massimo che il Tesoro si era prefissato — si aggiungono i 2,2 miliardi di crediti fiscali (le cosiddette ‘Dta’) si arriva a un impegno complessivo di 8,5 miliardi di euro pubblici”, si leggeva nell’articolo.
Negli ultimi giorni, in occasione della pubblicazione della trimestrale e del bilancio dei primi nove mesi del 2021 di UniCredit, è arrivata prima la versione di Orcel, con tanto di messaggio “Per noi la finestra è chiusa” e dopo la versione del Tesoro, con tanto di precisazioni da parte del ministro dell’Economia e delle Finanze, Daniele Franco.
Mps: e se la soluzione fosse il piano Isacco?
Ieri, il Tesoro è intervenuto di nuovo sulla questione, con l’audizione appunto del direttore Rivera. A Siena intanto c’è chi continua a insistere sul piano Isacco.
Premessa: tra le zavorre che pesano sul bilancio di Mps e che rendono la banca sicuramente non attraente agli occhi di eventuali potenziali compratori, ci sono cause legali che valgono ben 10 miliardi di euro e che sono probabilmente la vera spina nel fianco del Monte.
Il piano Isacco prevede che il Mef, maggiore azionista di Mps che non vede l’ora di sbarazzarsi della sua quota, ceda ai creditori le proprie azioni.
Di primo acchito si potrebbe pensare che, per i creditori di Mps, accettare le azioni Mps che valgono davvero poco sarebbe un suicidio. Non proprio però, a una analisi più approfondita. Certo i creditori potrebbero prendere la strada del tribunale, ma la vittoria sarebbe amara, in quanto in tasca arriverebbe davvero poco: Mps, quei miliardi che deve, non ce li ha.
Accettando le azioni del Mef, invece, i creditori diventerebbero azionisti di una banca ormai scevra dall’annoso problema dei guai legali: una banca dunque sicuramente più appetibile, allegerita da quelle cause legali, che potrebbe a quel punto interessare non più soltanto a UniCredit. E che potrebbe magari dare davvero il via a un terzo polo bancario in Italia.