Mercati, comprare ai minimi: i quattro rischi per chi investe sulla ripresa
L’azionario USA ha subito un crollo a doppia cifra, per paura che i valori costantemente elevati dell’inflazione potranno costringere la FED a un più aggressivo aumento dei tassi. In genere, di fronte a una significativa oscillazione dei mercati, gli investitori sono tentanti di rientrare quando i prezzi sono più bassi. Ma è meglio essere prudenti, visti i quattro fattori avversi che si frappongono alla ripresa del trend rialzista, come evidenzia un report di Robeco.
Il problema principale rimane l’inflazione, che si è impennata per colpa delle carenze di fornitura registrate al termine dei lockdown anti Covid-19 e con l’aumento dei prezzi dell’energia, riducendo drasticamente il potere d’acquisto di aziende e consumatori. Innanzitutto, nei prossimi mesi il rischio di inflazione tenderà a crescere ulteriormente, anche se successivamente ci aspettiamo un drastico calo. I mercati finanziari hanno capito che la Fed vuol fare battaglia all’inflazione e, per fronteggiare il rischio inflazionistico, hanno già scontato cinque aumenti dei tassi per il 2022. Questo potrebbe creare ulteriori turbolenze dopodiché, però, secondo noi i mercati si accorgeranno del rallentamento dell’inflazione, quantomeno nelle componenti cicliche dell’economia. Se consideriamo il minor tasso di incidenza di base dei prezzi del petrolio, l’inflazione IPC dovrebbe comunque scendere a circa il 3,5%. Ciò significa che verrà dimezzata rispetto agli attuali livelli su base annua.
Il secondo rischio è che la fine della pandemia e la riapertura del settore dei servizi riducano la domanda di beni di consumo durevoli, tra cui elettrodomestici e automobili. L’intensità dei lockdown imposti negli ultimi 18 mesi ha fatto schizzare il consumo dei beni durevoli, per i quali la gente, impossibilitata ad uscire e cenare in ristoranti di lusso, ha speso cifre esorbitanti. Con la riapertura delle economie dovuta all’indebolimento della variante Omicron, questa tendenza è destinata a scemare. Il calo dei consumi potrebbe imporre una flessione agli indici manifatturieri come l’ISM. Questo rischia di generare timori di crescita, soprattutto se l’ISM dovesse scendere sotto quota 55 (qualsiasi cifra superiore a 50 denota crescita). Le previsioni di consenso relative alla crescita del PIL reale sono in linea con un ISM pari a circa 56. Se il livello dovesse scendere sotto di questa soglia, per i mercati sarebbe una brutta sorpresa. Qualsiasi timore per la crescita, infatti, potrebbe avere vita breve, visto che la ripresa dei servizi dovrebbe mantenerne il valore al di sopra del trend; si tratta quindi di un rischio che i mercati possono superare.
Poi ci sono le tensioni tra Russia e Ucraina anche se gli investitori farebbero meglio a guardare il valore dei credit default swap (CDS), piuttosto che i 100.000 soldati russi stanziati al confine ucraino. Gli attuali spread dei CDS del governo russo equivalgono a un terzo di quelli registrati durante il picco della crisi del 2014, quando ad essere annessa è stata la Crimea. All’epoca, gli spread dei CDS erano a 600 punti base, oggi sono a circa 210. Possiamo quindi affermare con discreta sicurezza che si tratta di un rischio sottovalutato. Una volta rientrato dalle Olimpiadi invernali di Pechino, Putin potrebbe voler conquistare la contesa regione del Donbass, nell’est dell’Ucraina, ma le sue ambizioni si scontrano con le severe sanzioni imposte dall’Occidente. Inoltre, è molto improbabile che un paese con una disputa in atto riguardo i propri confini possa entrare nella NATO. La vicenda potrebbe quindi essere di breve durata. Difficilmente questa crisi produrrà un nuovo mercato ribassista, ma potrebbe far salire il prezzo del petrolio dagli attuali 89 dollari al barile a oltre la delicata soglia dei 100 dollari. Tutto sommato ci pare un rischio gestibile.
Il quarto e ultimo rischio è più serio, non facile da controbilanciare e riconducibile a ciò che ha provocato la correzione dei mercati di gennaio: una Fed meno favorevole ai mercati. Aumentare i tassi è una cosa, avviare una stretta monetaria è ben altra. I multipli dei mercati azionari potrebbero subire una flessione se i bilanci della Fed dovessero ridimensionarsi, invertendo il processo a cui abbiamo assistito durante il quantitative easing. Se guardiamo al classico rapporto prezzo/utili dell’S&P 500, le valutazioni dell’azionario USA sono storicamente elevate. L’ondata di vendite di gennaio ha ridotto tutti i multipli, ma l’S&P 500 si è mantenuto del 30% superiore alla media storica degli ultimi 40 anni. Resta da capire se la Fed stia davvero diventando meno favorevole al mercato. Se calasse il rischio d’inflazione, la politica della Fed potrebbe rivelarsi meno aggressiva nel secondo o nel terzo trimestre, allontanando ulteriori rialzi dei tassi.
Finché i tassi di crescita dei mercati sviluppati supereranno il trend – come avviene nello scenario di base prospettato da Robeco – i mercati azionari sapranno gestire un ulteriore aumento dei tassi di interesse reali e quindi adattarsi alla nuova realtà. Anche se comprare ai minimi non è più facile come una volta, questa correzione non preannuncia la fine della fase di rialzo dell’azionario, né decreta la scadenza del fenomeno TINA (There is No Alternative). Gli attuali parametri di valutazione relativa – tra cui il premio al rischio azionario – invitano alla prudenza, perché il rischio di ribasso è in crescita, nonostante la storia ci insegni che a questi livelli i titoli azionari tendono a sovraperformare le obbligazioni. Per i prossimi 12 mesi, tra gli esperti di Roberco prevale l’ottimismo sull’azionario e ne confermano la posizione leggermente sovrappesata nei portafogli multi-asset.