Con Fineco & Co in Italia trionfa il risparmio gestito. Oltre alle fusioni è questa la strada ‘obbligata’ per le banche tradizionali?
Il trionfo del risparmio gestito in Italia, come dimostrano le trimestrali snocciolate nelle ultime ore da Banca Generali, Fineco, Banca Mediolanum, e il sì di Alberto Nagel, AD di Mediobanca, alle fusioni ma solo – come scrive Mf- nel risparmio gestito – e sicuramente no con UniCredit – sembra mettere ancora più in crisi il modello di banca tradizionale. Facendo sorgere il seguente interrogativo: davvero le banche saranno costrette, in questa era di tassi negativi che minano indubbiamente la redditività del settore, a cambiare pelle, se non rinunciando, comunque mettendo sempre più paletti al business core di raccolta dei depositi ed erogazione del credito?
In realtà il fenomeno é già in atto, come dimostra la polemica esplosa con la decisione di alcune banche di alzare i costi a carico dei correntisti, ‘punendo’ chi deposita una quantità -reputata eccessiva – di denaro. La liquidità ormai, costa, e si assiste così al caso di UniCredit, che alza il canone fino a +70% su alcuni conti correnti; oppure di ING che in Italia dice addio al contante, nell’ambito di un trend che ha visto protagonista la stessa Fineco, che ha scioccato il mondo della finanza riservandosi il diritto di chiudere i conti dei clienti inattivi.
In generale, sono sempre di più le banche che si muovono per arginare l’effetto dei tassi negativi e del boom depositi in tempi di Covid-19.
Meglio vendere prodotti finanziari, facendo leva dunque sui guadagni incassati con le commissioni.
Del ruolo delle banche e di due modelli di attività bancaria “che si sono dimostrati particolarmente vulnerabili nell’esperienza recente” parla oggi, in un articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, l’economista Ignazio Angeloni, ex membro della del Supervisory board della vigilanza bancaria della Bce.
L’articolo fornisce già nel titolo la soluzione: “La messa in sicurezza delle banche passa da fusioni e diversificazione”, ovvero: la salvezza per le banche è nel risiko bancario, nelle operazioni di M&A e, anche, nella diversificazione.
Angeloni affronta il tema in un momento in cui si attendono le mosse della nuova UniCredit di Andrea Orcel.
In questo caso l’interrogativo è se Piazza Gae Aulenti convolerà o meno a nozze con Mps (vedi nuovi rumor sul piano Draghi).
Dopo la fusione Intesa SanPaolo-Ubi Banca e il successo dell’Opa di Credit Agricole su CreVal, gli operatori prevedono in ogni caso nuovi matrimoni: magari tra Banco BPM e Bper.
E che dire della genovese Carige, tornata ufficialmente preda del risiko bancario? E nel vortice M&A ci sarebbero anche Popolare di Sondrio e Credem.
Nell’articolo pubblicato sul Sole 24 Ore Angeloni rassicura in qualche modo chi paventa la scomparsa delle banche.
Allo stesso tempo, tuttavia, l’ex esponente della Bce tiene a sottolineare come la strada della sopravvivenza, per le banche, nolenti o volenti, sia proprio quella della fusione.
“Alcuni prefigurano addirittura la scomparsa delle banche, sostituite da algoritmi e monete digitali emesse dallo Stato – fa notare l’economista – Si tratta per lo più di scenari poco realistici e ancor meno desiderabili. Nel mondo, specie in Europa, la finanza rimarrà a lungo in mano a istituzioni per lo più private, soggette a regole e governate da persone. In Italia, le banche sono oggi più cruciali che mai per far uscire l’economia dalla crisi e per realizzare le trasformazioni di struttura che ci proponiamo”.
Ci sono due modelli di banche che ormai vanno superati:
“il primo è la banca universale sbilanciata verso l’investment banking, la cui redditività dipende dalla presenza sui mercati finanziari con esposizione in proprio e alta propensione al rischio”. A tal proposito, viene citato l’esempio-monito di Deutsche Bank.
Il secondo modello è proprio quello delle banche tradizionali, ovvero quello della “banca tradizionale al dettaglio – spiega Angeloni – fondata sul binomio deposito-credito, che intrattiene rapporti stretti di clientela sul territorio basati su conoscenza personale e fiducia. Si tratta – in genere, ma non sempre – di banche piccole e non quotate. Storicamente diffuso in Italia, questo modello si scontra con due realtà. La prima è la riconversione tecnologica, che richiede investimenti incompatibili con la piccola scala. La seconda è la restrizione dei margini di intermediazione, che impone di ricercare la redditività sviluppando sinergie e diversificando i servizi offerti, altra cosa che mal si concilia con la scala ridotta. Questi fattori stanno determinando un declino del localismo bancario non solo in Europa, ma anche negli Stati Uniti (…)”.
Qual è dunque il modello di banca vincente? E’ quello che dà una risposta a tre vincoli: “1) La necessità di controllare i rischi mantenendo un bilancio solido, sia all’attivo (non-performing loan, partite opache e rischiose) sia al passivo, con una struttura patrimoniale forte garantita della redditività. 2) Un contesto in cui continueranno a prevalere margini ristretti sull’intermediazione tradizionale. 3) Un mercato competitivo, specie nei servizi di pagamento, con una marcata tendenza all’informatizzazione. Non è escluso che perfino le banche centrali entrino in questo settore, lanciando la moneta digitale di cui tanto oggi si parla”. E “da questi vincoli – sottolinea Ignazio Angeloni – si esce solo con la scala e la diversificazione“.
Partendo da questo assunto, troverebbe giustificazione la dote fiscale che il governo Draghi, così come il governo Conte, starebbe mettendo a disposizione per agevolare le fusioni tra le banche italiane. Con tanto di diversificazione, “per sfruttare le sinergie che la rete distributiva consente, e per diluirne i costi, coprendo non solo le aree tradizionali della banca universale, ma anche il segmento degli strumenti previdenziali e assicurativi, poco sviluppato in Italia soprattutto nel suo nesso con la banca”.
Nel suo articolo Ignazio Gentiloni cita anche il caso di Monte dei Paschi, laddove sottolinea che il mix scala + diversificazione porta a immaginare nel corso dei prossimi 10 anni “un sistema bancario italiano composto da un numero limitato di istituti di medio-grandi dimensioni (più di cinque, ma probabilmente non oltre dieci), solidi e diversificati. Con al centro un numero ancor più ristretto di soggetti (uno o due al massimo) dotati di una significativa presenza europea e globale. In questa prospettiva acquisterebbero una logica le fusioni bancarie di cui oggi si parla, confusamente e in modo riduttivo – come risolvere il problema Monte dei Paschi di Siena, o come recuperare quote di mercato rispetto a un’altra banca”.
La strada della banca che vende prodotti finanziari e assicurativi e che assomigli dunque sempre di più a una Fineco, a una Banca Mediolanum o a una Banca Generali, sarebbe dunque già segnata, così come quella di matrimoni in pompa magna, a dispetto del rischio macelleria sociale paventato dalla Fabi di fronte alla prospettiva di mega fusioni.
I risultati che arrivano dal fronte del risparmio gestito parlano chiaro: nel primo trimestre Fineco ha assistito a utili e ricavi record, con i clienti aumentati del 76%; Banca Generali ha chiuso il trimestre migliore di sempre; e anche Banca Mediolanum ha battuto le attese.