Bitcoin & criptovalute, Goldman Sachs intervista Nouriel Roubini. ‘Altro che monete o oro’
Niente da fare: a Nouriel Roubini, Mr. Doom, professore di economia presso la New York University’s Stern School of Business e presidente di Roubini Macro Associates, il Bitcoin & Co. non convincono proprio.
“Intanto, per iniziare, chiamarle valute è fuorviante. Le valute devono disporre di quattro qualità: devono essere 1) unità di conto; 2) strumenti di pagamento; 3) riserve stabili di valore; 4) agire come un singolo numeraire. Il Bitcoin e la maggior parte delle criptovalute, invece, non presentano neanche una di queste caratteristiche – sottolinea Roubini, intervistato da Allison Nathan, Senior Strategist della divisione di ricerca macro globale di Goldman Sachs – Perfino i Flintstones disponevano di un sistema più sofisticato, utilizzando le conchiglie come un singolo numeraire per fare un paragone tra i prezzi di beni diversi”.
Roubini azzoppa senza tanti giri di parole chi parla di avvento di qualcosa di grande, come successe con l‘invenzione di Internet, ricordando che il Bitcoin ha ormai alle spalle più di un decennio di vita e che, “nonostante questo, non ha provocato nessuna trasformazione simile a quella che avvenne nei primi dieci anni di Internet”.
Per intenderci il World Wide Web, a dieci anni di erà, poteva già contare su miliardi di utenti mentre, nel caso del Bitcoin, sebbene sia difficile conoscere il numero totale degli utenti delle criptovalute, quelli attivi con le monete digitali più scambiate ammontano probabilmente a un centinaio di milioni”.
Inoltre, “dieci anni dopo Internet, c’erano le email, milioni di siti e APP utili, e tecnologie come i protocolli TCP e HTML con applicazioni ancora più ampie. Nel caso delle criptovalute, ci sono le cosiddette “dApps”, o APP decentralizzate, ma il 75% delle dApp è formato da giochi come CryptoKitties o, letteralmente, da piramidi o schemi Ponzi di un tipo o dell’altro. Il restante 25% è formato dai “DEXs”, o piattaforme decentralizzate, caratterizzate da poche transazioni e da scarsa liquidità. Quindi il paragone con Internet non regge proprio”.
Roubini: Bitcoin e criptovalute non sono neanche asset
I Bitcoin e altre criptovalute, inoltre, non sono neanche asset, per Roubini.
“Gli asset assicurano un qualche flusso di cassa o un’utilità che può essere utilizzata per capire il loro valore fondamentale. Un’azione assicura dividendi, che possono essere scontati al fine di arrivare alla valutazione. I bond garantiscono le cedole, i prestiti gli interessi, il mercato immobiliare genera affitti o servizi immobiliari”.
Ancora, continua l’economista, “le commodities come il petrolio e il rame possono essere utilizzate direttamente e in modo diverso. L’oro è utilizzato nell’industria, nel mercato delle gioiellierie, e storicamente è stato riconosciuto come riserva di valore stabile contro diversi rischi, che includono l’inflazione, la svalutazione delle monete, le crisi finanziarie, e i rischi politici e geopolitici. Il Bitcoin e altre criptovalute non generano (invece) redditi né hanno un’utilità, il che significa che non c’è modo di arrivare a comprendere il loro valore fondamentale. E una bolla si manifesta nel momento in cui il prezzo di qualcosa supera il suo valore fondamentale. Noi neanche riusciamo a determinare il valore fondamentale di queste criptovalute, nonostante questo i prezzi sono saliti in modo drammatico”.
Ma, gli chiede l’analista di Goldman Sachs, il Bitcoin non potrebbe servire magari come strumento di hedge per proteggersi contro il rischio di inflazione, così come l’oro?
La risposta di Nouriel Roubini, anche in questo caso, è negativa: “E’ vero che l’inflazione e le aspettative di inflazione hanno iniziato a muoversi verso l’alto, e che il dollaro si è indebolito – osserva Mr. Doom – ma mentre il prezzo dell’oro e di altri strumenti hedge sull’inflazione hanno riflettuto questi cambiamenti in modo limitato, il prezzo del Bitcoin è salito di più di dieci volte, da un minimo di $5000 a oltre $60.000 in un anno. Non si può spiegare una cosa del genere con la paura di una svalutazione delle monete, perchè nel caso in cui ci fosse stata una preoccupazione così forte, l’oro e altri asset come i TIPS avrebbero riportato un rally più forte. Di conseguenza, c’è qualcos’altro che deve essere considerato nel caso dell’aumento del Bitcoin e di altri prezzi cripto”.
L’economista ricorda inolree che la criptovaluta numero uno al mondo non può essere deprezzata, “perchè una regola criptografica fissa il tetto di disponibilità totale a 21 milioni di unità”.
Tuttavia, “il fatto che qualcosa sia scarso non significa che abbia un valore fondamentale. Non è difficile creare qualcosa che abbia un’offerta limitata, e non c’è alcuna ragione per cui la scarsità artificiale debba avere un valore in sé e per sé. Al di là del Bitcoin, l’offerta della maggior parte delle criptovalute è determinata da un gruppo di balene e di insider che seguono regole casuali che possono essere utilizzate per aumentare l’offerta ad hoc”.
Infine, altro che sistema decentralizzato, visto che “il 99% delle transazioni cripto avviene su piattaforme centralizzate”.
“La realtà è che l’ecosistema cripto non è decentralizzato. Un oligopolio di miner controlla essenzialmente il 70-80% del mining del Bitcoin e dell’Ether. Questi miner sono dislocati in posti come Cina, Russia e Bielorussia, che sono rivali strategici degli Stati Uniti e hanno un sistema legislativo differente. E’ questo il motivo per cui il Consiglio di Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti sta iniziando a preoccuparsi per i rischi che tutto ciò potrebbe rappresentare per gli Usa.