Nuovo shock inflazione Usa, ora si scommette su Fed super-falco: Goldman Sachs ‘vede’ sette strette nel 2022
Tassi Fed e inflazione Usa al record in 40 anni: Goldman Sachs rivede subito al rialzo le stime sulle strette monetarie della Federal Reserve di Jerome Powell. E Nathan Sheets, responsabile dell’economia globale di Citi Research, ammette: apprendere che l’indice dei prezzi al consumo, termomentro cruciale dell’inflazione, sia volato del 7,5% a/a a gennaio, “è stato come un pugno nello stomaco per Jay Powell e i suoi colleghi”.
Sicuramente, un pugno nello stomaco lo hanno ricevuto i mercati azionari: lo shock inflazione è stato tale che il Dow Jones Industrial Average è affondato ieri di 526,47 punti, a 35.241,59 punti, mentre lo S&P 500 è capitolato dell’1,81% a 4.504,08.
Il Nasdaq Composite è scivolato del 2,1% a 14.185,64. E dal trend dei futures Usa non emerge nulla di buono.
Certo, forse la reazione non sarebbe stata così forte se al dato non si fossero aggiunte le dichiarazioni di James Bullard, presidente della Federal Reserve di St. Louis, che ha detto di essere diventato più hawkish “in modo drastico”, aggiungendo di desiderare a questo punto un rialzo dei tassi di 100 punti base entro il prossimo 1° luglio.
“Vorrei vedere in cantiere entro il 1° luglio un rialzo di 100 punti base”. ha detto Bullard, intervistato da Bloomberg News dopo la pubblicazione del dato che ha mostrato l’impennata dell’inflazione al tasso annuale del 7,5%.
In generale lo shock ha portato sia i mercati che gli economisti a rivedere subito al rialzo i loro outlook sulle strette monetarie della Fed.
Gli economisti di Goldman Sachs hanno per l’appunto aggiornato le loro previsioni, annunciando di stimare per quest’anno ben sette rialzi dei tassi da parte della Fed (allineandosi così alla posizione di Bank of America):
“Stiamo rivedendo al rialzo le nostre stime su quanto farà la Fed, per includere sette strette monetarie consecutive di 25 punti base, in ognuna delle riunioni del Fomc successive del 2022 – si legge nella nota di Goldman Sachs – Continuiamo a prevedere che il Fomc (il braccio di politica monetaria della Fed) alzi i tassi altre tre volte di 1/4 di punto percentuale tra il primo e il terzo trimestre del 2023, fino a raggiungere il tasso terminale del 2,5%-2,75%, in anticipo”.
Ancora, hanno continuato gli economisti, “crediamo che ci siano le ragioni per una stretta monetaria di 50 punti base nella riunione di marzo. Il livello dei tassi sui fed funds appare inappropriato, e..i timori di cadere in una spirale (inflazionistica) salari-prezzi meritano di essere presi in considerazione in modo serio”.
Ora i mercati dei futures scommettono su una stretta monetaria di 50 punti base nel meeting di marzo con una probabilità vicina al 100%.
E non sono ormai soltanto Goldman Sachs e Bank of America a prevedere sette rialzi dei tassi in tutto nel corso di quest’anno: lo stesso outlook è prezzato con maggiore probabilità dai futures sui fed funds.
Veniamo ai dettagli del dato: lo scorso mese, l’indice dei prezzi al consumo – che monitora il trend dei prezzi al dettaglio – è salito a +7,5% a/a a gennaio (consensus era +7,2%), sui nuovi top a 40 anni, dopo il +7% di dicembre. Su base mensile, l’indice dei prezzi al consumo è salito al ritmo dello 0,6%, così come a dicembre, più del +0,5% stimato.
L’inflazione core ha accelerato anch’essa il passo, con un rialzo del 6%, dopo il +5,5% precedente e oltre il +5,9% atteso dal consensus. Su base mensile, il trend della componente core è stato di un aumento dello 0,6%, come a dicembre, ma oltre il +0,5% atteso.
La pubblicazione dei numeri ha affondato subito l’hi-tech, dunque il Nasdaq, mentre nel mercato dei titoli di stato Usa i rendimenti decennali si sono infiammati fino a testare e poi superare la soglia del 2% per la prima volta dal 2019, salendo fino al 2,05%.
E che dire della corsa dei tassi Usa a due anni, che sono schizzati di 26 punti base superando la soglia dell’1,6%, riportando l’aumento giornaliero più forte dal 2009?
A questo punto, anche Nathan Sheets di Citi Research ritiene che il dato abbia aumentato la possibilità di un rialzo dei tassi da parte della Fed, nella prossima riunione di marzo e per la prima volta dal 2018, pari a 50 punti base.
Nel motivare il commento secondo cui l’inflazione sia stata un pugno nello stomaco per Powell & Co, l’economista ha ricordato che “la narrativa della Fed è che, con il trascorrere dell’anno, dovremmo vedere l’inflazione iniziare a rallentare il passo e scendere. Ma il dato di gennaio non ha anticipato questa narrativa”.
Insomma, la speranza che la tassa più crudele sia vicina a toccare il picco è stata smontata, così come gli stessi economisti di Goldman Sachs saranno rimasti spiazzati dalla realtà dei fatti, visto che agli inizi di gennaio le loro previsioni erano di “solo” quattro strette monetarie, quest’anno, anche se poi la divisione di ricerca ha dovuto aggiornare le stime, allineandosi alla posizione di Jamie Dimon, numero uno di JP Morgan, che era stato all’inizio del 2022 forse il più hawkish di tutti:
“E’ possibile che l’inflazione risulti peggiore di quanto prevedano e che (la Fed) alzi dunque i tassi più delle attese. Personalmente, sarei sorpreso se i rialzi dei tassi fossero solo quattro”, aveva detto Dimon.
C’è da dire che gli economisti di Goldman Sachs sono diventati più hawkish anche nei confronti della Bce di Christine Lagarde, visto che ora prevedono ben due rialzi nel corso dell’anno.
Così altri economisti hanno commentato le notizie arrivate ieri dagli Stati Uniti:
Silvia Dall’Angelo, Senior Economist per la divisione internazionale di Federated Hermes, nel ricordare che l’inflazione Usa ha testato il nuovo massimo fin dalla metà del 1982 e che il nuovo massimo in 40 anni è stato riportato anche dall’inflazione core, ha fatto notare che “i beni di base hanno continuato a registrare i maggiori rialzi (in aumento dell’1% su base mensile e dell’11,7% su base annua), rispecchiando probabilmente l’impatto dei vincoli di fornitura su scala globale ed una modifica sulla scia della pandemia nei modelli di consumo dai servizi ai beni”.
“Tuttavia – ha aggiunto- la maggior parte delle voci (comprese le componenti degli affitti e degli OER, fortemente ponderate) ha registrato aumenti superiori al trend, suggerendo come l’inflazione sia diventata più pervasiva”.
Cosa potrà succedere a questo punto?
Dall’Angelo continua a ritenere che il picco delle pressioni inflazionistiche possa essere vicino:
“Guardando avanti è probabile l’inflazione USA raggiunga il picco a febbraio per poi iniziare una graduale discesa a marzo-aprile. Gli effetti di base, la stabilizzazione dei prezzi dell’energia e, soprattutto, un allentamento dei vincoli dell’offerta globale ed il miglioramento delle condizioni sul mercato del lavoro, dovrebbero contribuire a far scendere l’inflazione più rapidamente nel secondo semestre. Detto ciò, c’è ancora molta incertezza sulle prospettive. Più a lungo l’inflazione rimarrà su livelli elevati, maggiore è il rischio che si radichi, attraverso le aspettative e le dinamiche salariali. In effetti, le aspettative d’inflazione a lungo termine sono già salite (anche se non sembrano essersi disancorate) e l’inflazione salariale è aumentata nel corso degli ultimi due trimestri nel contesto di un mercato del lavoro rigido”.
Certo, il dato “mette ulteriore pressione sulla Fed per un restringimento aggressivo nel prossimo meeting di marzo. Il nostro scenario di base prevede ancora un aumento dei tassi di 25 punti base, ma non escludiamo un intervento più ampio (50 punti base), se la Fed vorrà dare un segnale più forte. Detto questo, l’incertezza è elevata e i rischi che circondano le prospettive sono eterogenei, considerazione che giustificherebbe un approccio graduale. In particolare, non mancano le ragioni di cautela rispetto alle prospettive sui consumi, alla luce del doppio effetto della stretta fiscale e della compressione dell’inflazione sui redditi reali. Mentre l’inflazione salariale è aumentata negli ultimi trimestri, è stata pur sempre superata dall’inflazione dei prezzi al consumo, aspetto che implica come i consumatori siano in condizioni peggiori in termini reali rispetto a prima della crisi”.
Dal canto suo François Rimeu, Senior Strategist di La Française AM spiega che, alle condizioni attuali, “è importante sottolineare subito che nessuno sa cosa succederà, che le incertezze restano alte e che non c’è praticamente nessun periodo nel passato a cui possiamo fare riferimento per stimare come e quando l’inflazione potrebbe scendere”.
Si tratta, come ha detto lo stesso Jerome Powell, di un’economia diversa, caratterizzata da un’inflazione diversa. Una inflazione che, come ha spiegato lo strategist di Kairos Alessandro Fugnoli, è stata scatenata in primis dalla rigidità dell’offerta.
Magari una rigidità dell’offerta che diventerà strutturale?
Rimeu cerca di fare previsioni su quello che potrebbe essere il trend dell’inflazione, facendo riferimento alla Bce. A tal proposito, c’è da dire che Christine Lagarde, numero uno della banca centrale europea, è tornata a rassicurare i mercati (che tuttavia l’hanno sconfessata in diversi casi):
Nelle ultime ore, in un’intervista rilasciata al quotidiano Redaktionsnetzwerk Deutschland, Lagarde ha detto che “alzare i tassi non risolverebbe nessuno dei problemi attuali”, che “è altamente improbabile che i prezzi del petrolio continuino a salire al ritmo del periodo 2020-2022” e di essere “fiduciosa nel fatto che l’inflazione (dell’area euro) rallenti il passo nel corso dell’anno”. Lagarde ha rimarcato che la Bce non vuole strozzare la ripresa.
Tornando alla nota di Rimeu, lo strategist ha affermato di prevedere che, “l’inflazione dell’Eurozona sia in media del 4,7%, 150 punti base sopra la stima della Banca Centrale Europea (BCE) a dicembre, e che l’inflazione core sia in media del 2,7%, 80 punti base sopra la stima della BCE”.
“Più nello specifico, ci aspettiamo che il tasso principale di inflazione sia al di sopra del 5% almeno fino a giugno, seguito da una lenta diminuzione nel terzo trimestre e da un calo più pronunciato nel quarto trimestre. Il tasso principale di inflazione dovrebbe attestarsi intorno al 3% a fine anno e l’inflazione core intorno al 2,3% – si legge nella nota dell’esperto – Gli effetti base diventeranno molto negativi nei prossimi mesi (a causa dei prezzi dell’energia e delle difficoltà negli approvvigionamenti). I prezzi elevati del metano e del petrolio spiegano la maggior parte delle revisioni al rialzo dall’inizio dell’anno. A proposito delle prospettive sull’energia, la situazione rimane molto incerta con alcuni fattori rialzisti che probabilmente andranno a scomparire, mentre altri potrebbero durare più a lungo (ad esempio, la transizione energetica in Europa che porterà alla graduale chiusura delle centrali a carbone e nucleari in alcuni Paesi europei). Inoltre, la crisi Ucraina/Russia sta aggiungendo una quota di incertezza sulla fornitura di metano”.
E non finisce qui:
“Anche l’inflazione sui beni alimentari tende a salire, il che non è una grande sorpresa se si considera che da alcuni mesi anche gli indicatori principali (il prezzo dei fertilizzanti, per esempio) tendono anch’essi a salire. Anche in questo caso l’incertezza rimane alta, specialmente dopo che la Russia ha cancellato le importazioni di nitrato d’ammonio (uno dei componenti dei fertilizzanti) per 2 mesi fino al 2 aprile. Considerando l’alto indice dei prezzi alla produzione (PPI), il forte slancio degli alimenti confezionati e l’inflazione salariale in arrivo, consideriamo il rischio di inflazione sbilanciato verso l’alto. Per il 2023, riteniamo che l’inflazione core e il tasso principale di inflazione scenderanno in modo considerevole fino all’1,7% in media, ma ancora una volta le incertezze rimangono elevate”.
“L’evoluzione delle difficoltà negli approvvigionamenti, la dinamica salariale e i prezzi dell’energia saranno di estrema importanza – rimarca Rimeu – Qualsiasi siano le aspettative per il 2023, i numeri attuali relativi all’elevata inflazione e gli alti prezzi dell’energia indicano un notevole rischio che a marzo la Bce pubblichi previsioni di inflazione sensibilmente più elevate, specialmente quelle per il 2022. L’orizzonte a due anni (2024) potrebbe avvicinarsi pericolosamente al livello del 2%, che potrebbe portare a un outlook più hawkish. L’inflazione farà pressione sulla Bce affinché mantenga un tono relativamente interventista durante la maggior parte del 2022, il che è negativo per il sentiment del mercato.
Tornando alla Fed, “anche riguardo gli Stati Uniti crediamo che l’inflazione rimarrà molto alta nei prossimi mesi. Ci aspettiamo che l’inflazione 2022 sia in media del 5,7%, con l’inflazione core intorno al 5%. L’andamento nel corso dell’anno sarà paragonabile a quello europeo con un’inflazione molto alta fino alla fine di aprile (superiore al 7%) e un rallentamento fino alla fine dell’anno. Ci aspettiamo che il tasso di inflazione principale e quello core chiudano l’anno intorno al 3,5%, sopra l’obiettivo della Fed. I prezzi delle case hanno un impatto significativo sull’affitto equivalente (Owner’s Equivalent Rent) e sulle componenti dell’affitto, che nel complesso rappresentano il 40% dell’inflazione core. Per quanto riguarda gli affitti, diversi indici (REIS, Zillow) suggeriscono che l’attuale accelerazione dell’inflazione degli affitti potrebbe protrarsi nel 2022, portando la crescita anno su anno sopra il 5% nel secondo semestre 2022 e 2023. Anche i salari sono una determinante importante per le stime di inflazione a medio termine (soprattutto nei servizi). Negli ultimi sei mesi, la misura della crescita dei salari nominali della Fed di Atlanta ha accelerato al 4,5% anno su anno, un massimo da 20 anni. Le prospettive a breve termine rimangono incerte: il tasso di abbandono del lavoro nel settore privato suggerisce un’ulteriore accelerazione dei salari, mentre l’indice Conference Board che misura la fiducia dei consumatori, basato sulle prospettive a breve termine dei consumatori per quanto riguarda le condizioni di reddito, affari e mercato del lavoro, mostra che è in arrivo un calo”.
In definitiva, “contrariamente all’Europa, ci aspettiamo un’alta inflazione core negli Stati Uniti anche nel 2023, soprattutto a causa dell’alta inflazione core nei settori dei servizi (componenti elevate di affitto equivalente e componenti dell’affitto). Ci aspettiamo che l’inflazione risulti inferiore a quella del 2022, ma che si attesti in media intorno al 2,8% nel 2023, al di sopra del tasso a cui punta la Fed. Nei prossimi mesi, i dati sull’alta inflazione sosterranno un tono relativamente hawkish da parte della Fed, che influenzerà negativamente il sentiment del mercato. Nel 2021, la spesa dei consumatori statunitensi è stata molto alta, grazie al forte stimolo fiscale che ora sta lentamente svanendo. Negli Usa storicamente esiste una correlazione negativa tra l’inflazione e la spesa dei consumatori e, se questa relazione resta valida, dobbiamo aspettarci un rallentamento dei consumi nei prossimi trimestri. Di conseguenza, la crescita statunitense potrebbe deludere nella seconda parte dell’anno, anche se l’inflazione sarà ancora alta. Il possibile rallentamento della crescita, l’inflazione elevata e la stretta monetaria della banca centrale statunitense… tutti fattori che non alimentano la propensione al rischio in generale”.