Carige, corsa disperata contro il tempo: 48 ore per salvarla. Altrimenti l’Italia avrà il suo primo bail-in
Sembra di vederle, quelle lancette dell’orologio, che scandiscono il passaggio inesorabile del tempo, avvicinandosi a giovedì 25 luglio. Carige, la banca genovese commissariata dalla Bce all’inizio dell’anno, ha 48 ore di tempo per presentare alla Bce anche solo una bozza di un piano volto a rimetterla in piedi e a garantire un rafforzamento patrimoniale. Rafforzamento patrimoniale che è stato calcolato in 900 milioni di euro, di cui 700 milioni in equity e 200 milioni attraverso un bond subordinato.
Il piano sembra piuttosto completo, ma l’interrogativo rimane su chi metterà i soldi. Dov’è innanzitutto la famiglia Malacalza, il maggiore azionista di Carige, con una quota del capitale pari al 27,55%, che lo scorso dicembre disse no all’aumento di capitale?
Senza il suo via libera, l’intero architrave su cui poggia l’operazione, ovvero il rafforzamento patrimoniale, è destinato a crollare. E, con esso, la banca.
E’ il Sole 24 Ore, in un articolo scritto da Alessandro Graziani, a presentare tutta l’urgenza della situazione: “Carige, tempo scaduto: cordata patriottica o bail-in”.
Sembra farsi così carne e ossa proprio quello spettro tra i più odiati dagli italiani.
“Se la grande coalizione dei ‘patrioti’ italiani non dovesse trovare la quadratura del cerchio, o se la Vigilanza Bce non dovesse giudicare efficace il piano di salvataggio, l’unico piano B – probabilmente già predisposto per dovere di ufficio dalle Autorità di Vigilanza italiane ed europee – è la risoluzione della banca con l’intervento del Single Resolution Board europeo secondo la nuova normativa del bail in, finora mai applicata in Italia”.
BAIL-IN CARIGE, L’ESPERTO AVEVA AVVISATO
Per avere un quadro più chiaro del dossier Carige, si può far riferimento a un articolo pubblicato all’inizio del 2019 da lavoce.info, a firma Angelo Baglioni, professore ordinario di Economia Politica presso l’Università Cattolica di Milano, Facoltà di Scienze Bancarie, Finanziarie e Assicurative e, anche, membro del Banking Stakeholder Group della European Banking Authority.
L’articolo descriveva Carige con la realtà cruda dei fatti: “una banca che ha ‘bruciato’ diversi aumenti di capitale: ‘fra il 2014 e il 2017 Carige ha già avuto ricapitalizzazioni per 2,7 miliardi, mentre oggi la sua capitalizzazione in borsa non supera i 100 milioni”.
Già da allora, iniziava ad aleggiare lo spettro del bail-in. Così scriveva ancora Baglioni, in merito al rischio che la banca correva:
“Per ora no, ma in futuro ciò potrebbe avvenire. Secondo la direttiva europea Bank Recovery and Resolution Directive (Brrd), il commissariamento fa parte di quelle misure di intervento tempestivo (‘early intervention’) volte a evitare la procedura di risoluzione, che a sua volta può comportare il bail-in di alcuni strumenti finanziari emessi dalla banca, secondo il noto ordine: azioni, obbligazioni subordinate, obbligazioni ordinarie, depositi (oltre i 100 mila euro). Il punto è che, se i commissari non dovessero riuscire nel loro intento, la Bce sarebbe prima o poi costretta a dichiarare la banca ‘failing or likely to fail’ (‘in dissesto o a rischio dissesto’), passando la palla al Single Resolution Board (Srb).
CARIGE: SI LAVORA AL PIANO, OGGI RIUNIONI CRUCIALI
Oggi si svolgeranno incontri determinanti per il futuro di Carige: incontri che sanciranno la sopravvivenza o che creeranno i presupposti per applicare per la prima volta il bail in in Italia.
A Roma è prevista la riunione del comitato di gestione del Fitd (Fondo interbancario di tutela dei depositi) per valutare eventuali interventi da parte del Fondo obbligatorio a sostegno di Carige.
In calendario anche le riunioni dell’assemblea e del consiglio di gestione dello Schema volontario, per dare il via libera alla conversione del bond subordinato da 320 milioni, e finanziare dunque parte dell’equity necessaria, pari a 700 milioni. La conversione (che dovrebbe essere alla pari), potrebbe tuttavia essere condizionata alla richiesta di un piano che preveda la partecipazione di altri soggetti, pubblici o privati. Soggetti i cui vari nomi circolano da settimane, ma che non hanno ancora reso noto quale sarebbe il loro impegno finanziario.
Domani ci sarà il cda Cassa Centrale Banca, il polo trentino delle banche di credito cooperativo, ergo il primo gruppo cooperativo nato dalla riforma delle Banche di credito cooperativo, (ufficialmente il 1° gennaio del 2019), per valutare l’intervento nella partita.
Per ora, l’unico impegno finanziario pervenuto è quello dell’Fitd che, secondo quanto riportato dal Sole, “in mancanza di altri possibili investitori”, starebbe pensando alla “possibilità di dover mettere sul piatto un ulteriore esborso shock da oltre 300 milioni”.
Per certi versi il procedimento di salvataggio, allo stato attuale delle cose, appare così nebuloso, che, secondo il Sole, le varie autorità responsabili del sistema bancario avrebbero già pronto un piano B.
“Paracadute (o piano B) che pare passare dalla procedura di risoluzione, dato che il Governo italiano non sembra avere intenzione di mettere mano al portafoglio per portare avanti la ricapitalizzazione precauzionale (pur annunciata con un decreto a gennaio) o una liquidazione volontaria sull’esempio del caso Intesa-popolari venete. La risoluzione è l’arma estrema, finora mai usata in Italia secondo la direttiva del bail in, che porta alla separazione in due di una banca dividendo la bad bank dalla good bank. Prevale comunque la linea istituzionale di Bankitalia e Tesoro e il sistema avanza nel tentativo di salvataggio ‘patriottico’. Quello della risoluzione resta solo il piano B da attivare in caso di emergenza”.
Tuttavia l’articolo del quotidiano di Confindustria segnala come diverse banche italiane guarderebbero quasi con favore al piano B, sempre che non ci fossero perdite per i piccoli risparmiatori, pur di impedire che sia l’intero sistema bancario attraverso il Fondo interbancario di garanzia dei depositi a diventare il socio di riferimento della banca.
Insomma, la voglia di fare team è poca, mentre si sono decisamente volatilizzate le ambizioni di nazionalizzazione del vicepremier pentastellato e ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio, che tanto aveva sognato Carige in versione Banca di Stato.
Così Di Maio, commentando il decreto Carige varato dopo il commissariamento della banca dalla Bce, all’inizio di gennaio:
“O si nazionalizza o non si mette in euro”, aveva detto su Facebook. E, in caso di nazionalizzazione, «la cominciamo a usare per dare crediti alle imprese in difficoltà, alle piccole e medie imprese, per migliorare i mutui alle famiglie, per aiutare di più i giovani a diventare indipendenti, ad andare via di casa grazie a una banca che comincia a fare la banca d’investimento dello Stato».
E invece, alla fine, non solo è saltata l’ipotesi di Banca di Stato ma anche quella di ricapitalizzazione precauzionale in stile Mps.
Una ricapitalizzazione non più possibile perchè, come ha spiegato La Repubblica qualche giorno fa, “la riunione chiarificatrice a Palazzo Chigi, da una parte i tecnici di Tesoro e Bankitalia, dall’altra i politici della maggioranza di governo, ha chiarito alcuni aspetti del dossier. Non tutti. Il principale, come emerge, è che la soluzione della ricapitalizzazione precauzionale dello Stato – prevista fino a un miliardo dal decreto di sei mesi fa, che pure è esecutivo – pare al momento impraticabile. Il motivo, secondo i tecnici, è che Carige potrebbe in seguito a un esame sui crediti denotare un deficit di capitale per “perdite pregresse o probabili”, ipotesi che vieterebbe la fattispecie sfruttata nel 2017 per Monte dei Paschi”.