Notizie Notizie Mondo Cina: tra Russia e politica zero Covid è fuga investitori, si scappa da azioni e bond

Cina: tra Russia e politica zero Covid è fuga investitori, si scappa da azioni e bond

26 Aprile 2022 11:02

E ora la Cina, con il mix esplosivo Covid-Russia, rischia davvero tanto. Sul Covid, non per la gravità della pandemia, ma per quella politica a detta di tutti masochistica e perseguita in modo ossessivo, nota come Zero-Covid policy, che si è tradotta e tuttora si sta traducendo in lockdown e restrizioni che hanno colpito già centri finanziari ed economici del calibro di Shanghai e Pechino. Tutto nel mezzo della guerra Ucraina-Russia che ha visto giorni fa la Cina di Xi Jinping prendere una posizione chiaramente anti-occidentale.

Il governo di Pechino ha ribadito, di fatto, che con la Russia di Vladimir Putin esiste “un’amicizia senza limiti” e che per questo la cooperazione strategica tra i due paesi continuerà.

D’altronde, a dispetto degli Stati Uniti, dell’Europa e di altri paesi alleati che cercano di accerchiare Mosca con le sanzioni, in queste settimane di guerra è stata proprio la Cina, insieme all’India, a salvare la Russia dal collasso economico.

“La Russia non sta soffrendo l’impatto delle sanzioni nel modo sperato dall’Occidente. E la colpa in gran parte ricade sull’India e sulla Cina. Nessuno di questi due paesi ha preso una posizione esplicitamente a favore o contraria alla Russia, entrambi hanno continuato a optare per una subdola via di mezzo, mentre la maggior parte delle nazioni del mondo ha condannato il presidente Vladimir Putin. Hanno continuato anche ad acquistare energia russa, finanziando così indirettamente l’invasione dell’Ucraina,  e mantenendo al contempo in modo efficace le stesse relazioni commerciali che avevano prima dell’inizio della guerra” in Ucraina.

Il mix cinese di politica zero Covid-amicizia senza limiti nei confronti di Mosca è stato però punito dai mercati. Un articolo della CNN mette infatti in evidenza la fuga degli investitori internazionali dalla Cina, sicuramente non circoscritta alla sessione lunedì da incubo di ieri.

Esodo da azioni e bond Cina: la fuga è senza precedenti

La fuga è stata certificata dai dati dell’Institute of International Finance (IIF), da cui è emerso che, nel mese di marzo, i flussi di investimenti in uscita dai mercati cinesi sono ammontati a $17,5 miliardi, un record, ha sottolineato l’associazione Usa, “senza precedenti”, soprattutto se si considera che nell’arco di tempo considerato non c’è stata nessuna fuga simile da altri mercati emergenti.

In particolare, gli investitori internazionali hanno scaricato $11,2 miliardi di bond, e il resto in azioni.

Perfino Pechino è stata costretta a diramare numeri che hanno confermato l’esodo dal suo mercato dei bond, trend in atto da qualche mese a questa parte.

L’autorità China Central Depository and Clearing ha comunicato che, già nel mese di febbraio, gli investitori stranieri avevano smobilizzato titoli di stato cinesi (dunque debito sovrano) per un valore netto di 35 miliardi di yuan (l’equivalente di $5,5 miliardi), ammontare record mensile.

Il sell off ha accelerato poi il passo a marzo, con smobilizzi pari a 52 miliardi di yuan (l’equivalente di $8,1 miliardi).

Il sostegno che la Cina ha dato all’invasione russa dell’Ucraina è stato chiaramente il fattore che ha catalizzato la fuga dei capitali“, ha commentato George Magnus, professore associato presso il China Centre dell’Oxford University ed ex capo economista di UBS.

“C’è nervosismo per l’atteggiamento ambiguo della Cina nei confronti della Russia riguardo al conflitto in Ucraina, fattore che aumenta i timori che la Cina possa essere colpita dalle sanzioni in caso di aiuti alla Russia“, ha detto, interpellato anche lui dalla Cnn, Martin Chorzempa, docente senior fellow presso il Peterson Institute for International Economics, esperto di economia cinese e di relazioni tra Stati Uniti e Cina.

Ma ci sono altri due fattori, al di là di quello geopolitico, che hanno provocato la fuga dagli asset made in China. Uno è rappresentato dal rialzo dei tassi Usa lanciato lo scorso marzo dalla Fed di Jerome Powell, come confermato anche da Chorzempa.

“L’aumento dei tassi di interesse, specialmente negli Stati Uniti, ha reso il ritorno nominale associato agli asset cinesi del reddito fisso relativamente meno appetibile”.

Il secondo fattore è l’ostinazione con cui Pechino sta portando avanti la sua lotta contro la nuova ondata di Covid – la più forte dal 2020, dai tempi del lockdown di Wuhan – e che sta avendo un impatto economico notevole, alimentando anche l’incertezza sulla crescita futura del paese.

Gli effetti sono già sotto gli occhi di tutti: l’economia cinese è stata colpita da un forte rallentamento nel mese di marzo, con i consumi scesi per la prima volta in più di un anno, a fronte di un balzo del tasso di disoccupazione a valori record nelle 31 principali città cinesi, sulla scia dei lockdown che hanno colpito Shanghai e altre città principali.

Cina: manicomio Covid, lockdown anche a Chaoyang (Pechino)

Nella giornata di ieri, la Cina ha reso noti 3.266 casi sintomatici di Covid e 20.454 casi asintomatici. La maggioranza delle nuove infezioni è stata individuata a Shanghai, dove sono stati segnalati 19.445 casi.

Pechino, sempre nella giornata di ieri, ne ha riportati 19, di cui 14 sintomatici. Le autorità della capitale cinese hanno così ordinato ai 3,5 milioni di residenti e lavoratori del principale distretto della città di Pechino, il distretto di Chaoyang, di rendere noti i risultati dei tre test anti Covid a cui dovranno sottoporsi questa settimana, dopo che nell’area sono stati rilevati da venerdì scorso 26 casi dei 47 di tutta la città di Pechino.

Più di dodici edifici dell’area di Chaoyang, quartiere dove sono presenti diverse aziende internazionali e ambasciate, sono stati messi in stato il lockdown.

Temendo ulteriori restrizioni, gli abitanti di Pechino si sono così affrettati a fare incetta di cibo e di altri beni essenziali. Il risultato è noto a tutti: lockdown = meno consumi =meno produzione=meno investimenti=calo del Pil=meno lavoro.

Pil Cina: raffica di downgrade, da JP Morgan all’Fmi

E in Cina la situazione è tale che sono già diversi gli economisti che si sono affrettati a tagliare le stime sulla crescita del Pil.

Nelle ultime ore Bank of America ha rivisto al ribasso le proprie proiezioni di crescita del 2022 dal +4,8% precedentemente stimato al +4,2%, rispetto al target fissato dal governo di Pechino, pari al +5,5% circa, mentre il downgrade di Nomura è da una crescita economica pari a +4,3% a +3,9%, sempre per il  2022. Negli ultimi giorni, in occasione delle riunioni primaverili, l’Fmi – il Fondo Monetario Internazionale – ha tagliato inoltre l’outlook sull’economia dal +4,8% precedente al +4,4%, citando proprio i rischi legati alla severa politica Zero Covid.

Il 18 aprile scorso la Cina ha reso noto che il Pil del primo trimestre dell’anno è salito del 4,8%, più delle attese: migliori delle stime si sono confermati anche la produzione industriale e gli investimenti in asset fissi. Ma le vendite al dettaglio si sono contratte, molto più delle attese, del 3,5%, a conferma del deterioramento dei fondamentali dell’economia che sarà più chiaro uando si conosceranno gli effetti dei lockdown.

JP Morgan, dal canto suo, ha già tagliato le stime sul Pil di quest’nno dal +4,9% al +4,6%, motivando il peggioramento dell’outlook con le aspettative di una crescita minore delle spese per consumi e di un downgrade delle previsioni sugli investimenti di 0,1 punti percentuali.

L’outlook peggiore è quello degli economisti di UBS, che hanno sforbiciato l’outlook di 0,8 punti percentuali al +4,2%, citando “una maggiore pressione al ribasso sull’economia “. In particolare l’economista Wang Tao, nonostante le promesse di ulteriori stimoli monetari da parte della People’s Bank of China – banca centrale della Cina – ha detto di non credere che le istituzioni lanceranno il “whatever it takes” per consentire all’economia di centrare il target del governo, pari a un tasso di crescita del 5,5%.

Nel frattempo, il fuggi fuggi degli investitori è confermato anche dal trend dell’indice azionario The Nasdaq Golden Dragon index, che replica più di 90 società cinesi quotate a Wall Street, e che nel terzo trimestre del 202 era già affondato del 31%, riportando la peggiore performance della sua storia, per poi flettere di un altro -14% nell’ultimo trimestre dell’anno; questo, rispetto al +0,2% e al +11% degli stessi trimestri considerati per lo S&P 500 e al balzo dell’8% del Nasdaq Composite durante il quarto trimestre del 2021.

Le azioni cinesi hanno pagato in uqei trimestri l’ennesimo giro di vite lanciato dal governo di Pechino, che si è abbattuto soprattutto sulle Big Tech cinesi del calibro di Alibaba, Baidu, JD.com, Bilibili.