Mps: c’è ancora l’incognita sull’aumento di capitale. Banche consorzio garanzia tentennano, niente firma per ora
Mps: il cda della banca senese si riunisce per definire gli ultimi dettagli dell’aumento di capitale ma la riunione fiume, a detta delle indiscrezioni stampa, si conclude con un nulla di fatto. Motivo: le banche del consorzio di garanzia per la ricapitalizzazione da 2,5 miliardi di euro non hanno ancora apposto la loro firma.
E, senza la loro firma, non si può procedere: dunque, niente fissazione del prezzo delle nuove azioni da emettere sul mercato e niente integrazioni al prospetto, in vista del via libera definitivo all’operazione di rafforzamento di capitale della Consob.
A questo punto il cda del Monte di Stato potrebbe riunirsi nella giornata di oggi, nella speranza che la firma delle banche del consorzio di garanzia venga apposta.
Senza quella firma, neanche il Tesoro, maggiore azionista del Monte dei Paschi con una partecipazione del 64%, può sottoscrivere l’aumento e assicurare l’unica somma che rimane al momento certa: 1,6 miliardi di euro, su un totale di 2,5 miliardi di mezzi freschi che Siena punta a raccogliere. Stando agli accordi con l’Ue, l’aumento di capitale deve avvenire infatti a condizioni di mercato: e se quelle banche non firmano, lo Stato italiano non può farsi avanti.
Banche consorzio garanzia: tensione con Mps per inoptato troppo grande
Le banche del consorzio di garanzia, si ricorda, sono Mediobanca, Credit Suisse, BofA Securities, Citigroup, Credit Suisse; a queste si sono affiancate come joint bookrunners Société Générale, Sitfel Europe Bank, Banco Santander e Barclays.
A giugno, questi istituti hanno sottoscritto il contratto di pre-underwriting, in vista della firma finale alla sottoscrizione dell’inoptato, ovvero di quelle azioni che, con l’aumento di capitale, Mps non riuscirà a piazzare.
Complice la volatilità del mercato e il timing della ricapitalizzazione, il consorzio non vuole trovarsi con il cerino in mano, ovvero non vuole finire con il sottoscrivere un inoptato consistente.
La ragione è che le banche, ovviamente, non ci pensano proprio a esporsi troppo al rischio di un eventuale tonfo delle nuove azioni Mps post aumento di capitale.
Urge dunque l’impegno dei privati. Non per niente sono state queste stesse banche a fare pressioni sul ceo di Mps Luigi Lovaglio affinché superasse la sua iniziale riluttanza a trattare con Axa e Anima, entrambe partner industriali del Monte, per convincerle a partecipare all’operazione di ricapitalizzazione.
Di quelle trattative si è parlato per giorni, e le ultime indiscrezioni indicano un impegno della compagnia assicurativa Axa pari a 150 milioni ma di un nulla di fatto, ancora, con la società di risparmio gestito Anima, che pretenderebbe un rafforzamento degli accordi, in cambio del suo supporto. La riluttanza di Lovaglio si spiega con la consapevolezza che legami più stretti con Axa e Anima potrebbero ostacolare la ricerca futura di un partner con cui avviare una fusione, cosa su cui Mps vorrebbe impegnarsi – per consentire finalmente l’uscita dello Stato – dopo la ricapitalizzazione.
Ma qui rischia di andare a monte anche l’aumento di capitale, tanto che oggi Il Sole 24 Ore sottolinea che si capirà forse oggi se l’operazione potrà essere lanciata il prossimo lunedì 17 ottobre, o “se servirà ragionare su un piano B, incluso un ulteriore slittamento”.
Oltre ai 150 milioni in arrivo da Axa, ci potrebbero essere le fondazioni bancarie toscane che, segnala l’agenzia Radiocor, “dovrebbero però essere autorizzate dal Ministero dell’Economia che è nella duplice veste di autorità di Vigilanza e azionista di controllo della banca” di Monte dei Paschi.
Alcune casse di previdenza contattate starebbero valutando l’opzione della partecipazione all’operazione, mentre nuovi soci potrebbero diventare i fondi Algebris, Hosking e l’imprenditore francese Denis Dumont, vicini al ceo di Mps Luigi Lovaglio dai tempi in cui il manager era a capo di Creval.
Si rimane dunque ancora nel limbo delle ipotesi, mentre le banche del consorzio chiedono un impegno, da parte degli investitori privati, pari alla metà dei 900 milioni di capitali privati necessari.
Il quotidiano di Confindustria riporta come nella giornata di ieri “si sarebbe rischiata anche la rottura del consorzio, con l’uscita di scena delle banche componenti”.
Mps: riappare l’incubo burden sharing
Se le banche del consorzio decidessero di mollare il Monte dei Paschi, opzioni ben più dolorose si staglierebbero all’orizzonte.
Per questo, il Tesoro negli ultimi giorni e secondo diverse fonti avrebbe interpellato anche alcune banche italiane, incluse UniCredit e Intesa SanPaolo e compagnie assicurative del calibro di Generali e Unipol.
Un’espressione rimbalzata più spesso nell’ultima settimana è stata inoltre quella di “burden sharing”, soluzione che travolgerebbe i detentori delle obbligazioni subordinate e che farebbe parte del piano, tra l’altro, della stessa Vigilanza della Bce, che guarda a Siena di nuovo con preoccupazione.
La tensione sui bond è stata tale che alcuni hanno visto schizzare i rendimenti ben oltre la soglia del 300%. Negli ultimi giorni ha parlato del caso Mps anche il Financial Times:
“I vertici del Monte dei Paschi potrebbero iniziare a esplorare scelte diverse da quella dell’aumento di capitale da 2,5 miliardi di euro, dopo che alcune delle banche (del consorzio di garanzia della ricapitalizzazione) hanno indicato di non essere disponibili ad assorbire l’inoptato che emergerebbe nel caso in cui i capitali privati non partecipassero” all’operazione.
Un banchiere interpellato dall’FT ha fatto qualche conto, arrivando alla seguente conclusione:
“Per ogni euro a cui si impegna un investitore privato, il Tesoro può investire 1,78 euro. Di conseguenza, se gli investitori si impegnassero a versare 400 milioni di euro, il Tesoro potrebbe iniettare 712 milioni di euro, e con l’aumento di capitale si raccoglierebbero 1,2 miliardi di euro: una somma inferiore al target” (di 2,5 miliardi). Inferiore e non di poco, visto che i mezzi freschi raccolti sarebbero a quel punto meno della metà della cifra che si vuole incassare, ovvero un totale di 2,5 miliardi di euro”.
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Non ci si stupisca se l’aumento di capitale non andrà in porto.
All’inizio di settembre circolavano già rumor secondo cui le banche del consorzio di garanzia per l’aumento di capitale di Mps avrebbero voluto rimandare la ricapitalizzazione al 2023.
Tutto questo mentre Mps è vulnerabile anche alle oscillazioni dello spread BTP-Bund, scontando l’esposizione verso i BTP .
Bloomberg ha ricordato di fatto di recente che “il 90% circa dei debiti sovrani presenti nel bilancio della banca Mps (si legge nell’articolo di Bloomberg) è costituito da debiti italiani, dunque da BTP & Co: di questo ammontare più della metà è valutato al prezzo corretto (fair value), e mentre l’ammontare totale incide sui risk-weighted asset per il 17% circa”.
Il punto è che Mps ha bisogno di quei soldi soprattutto, nel breve, per finanziare le uscite anticipate dei dipendenti, che sono decisamente superiori a quanto stimato. Le richieste di esodi sono state infatti di 4.125 unità : ben oltre le 3.500 uscite anticipate che erano state previste.
Lo stesso ceo Luigi Lovaglio aveva parlato di tempi brucianti per il lancio dell’aumento di capitale da 2,5 miliardi.
“Più di un terzo dell’aumento di capitale da 2,5 miliardi di Banca Mps serve per gli esodi volontari del personale”, aveva detto l’amministratore delegato, puntando sull’urgenza della ricapitalizzazione di Mps, dopo il via libera dell’assemblea straordinaria degli azionisti.
In una nota dedicata a Mps, IG scriveva qualche settimana fa, guardando al caso della banca senese:
“Siamo fiduciosi sulle strategie e sulle operazioni introdotte dal nuovo amministratore delegato Lovaglio, che riteniamo competente nel campo bancario e in grado di supportare un complesso programma di riorganizzazione della banca senese. Nonostante ciò, il caso è molto complicato (come spesso accade quando lo stato interviene in salvataggi pubblici) e potrebbe risultare in un esito ben diverso da quello che ci si aspetta. In ogni caso, attualmente il titolo capitalizza in Borsa circa €410 milioni e quota intorno ai livelli di €0,37 centesimi. Le azioni sono però in un calo continuo da marzo scorso mostrando, da quel momento, un ribasso del 62%”.